lunedì 29 febbraio 2016

DEMOCRAZIA SFIGURATA MA NECESSARIA

La Rassegna Incontri culturali 2015/2016, voluta dalla Biblioteca Diocesana “Pier Matteo Petrucci” e organizzata insieme al Comune di Jesi e a Jesi Cultura, è terminata il 19 febbraio scorso; presso la Biblioteca Planettiana-Sala Maggiore è stato ospite il Prof. Stefano Petrucciani che ha trattato il tema “La democrazia tra crisi e trasformazione”.
Propongo qui un breve riassunto della conferenza precedente, quella del 20 gennaio scorso, dal titolo “Individuo democratico e la sfida individualista tra interesse e solidarietà”. È stata tenuta, presso la Biblioteca Diocesana, dall’eminente Prof.ssa Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica presso la Columbia University (USA), stimata editorialista e politologa con un passato d’impegno politico al servizio della comunità civile.
L’iniziale citazione dell’opinione di Churchill riguardo alla democrazia ha illuminato tutta la relazione della Professoressa e ha rappresentato il costante riferimento per le sue numerosissime riflessioni. Il nucleo del pensiero del grande statista inglese è che «la democrazia è un cattivo governo ma, tra tutti i cattivi governi, è certo il migliore. Quindi, la democrazia è “un meno peggio”».
Che cosa, pertanto, rende accettabile la democrazia? Semplicemente che essa è un riconoscimento dell’imperfezione umana, perché ammette che ogni decisione può essere cambiata e che ciò avviene grazie alla cosiddetta “regola della maggioranza”. Fatto non trascurabile, a quanto pare, perché la possibilità di una seconda scelta che si concede al cittadino si fonda sul principio che egli è Persona con un’entità finita, dunque imperfetta; e che, perciò, a lui spetta sempre la facoltà (e il diritto) di dissentire dai politici che ha legittimato a rappresentarlo, per le decisioni che prendono in favore della collettività, mediante il proprio voto.
«Il voto, tuttavia – come dice la Professoressa Urbinati –, non è “sì” e “no”, perché è un’elaborazione, pure in continuo mutamento, e dentro di sé esso è molto più di un semplice voto. Infatti, quando ci rechiamo a votare per questo o per quell’altro, nella nostra mente noi facciamo una ricapitolazione, perché siamo esseri giudicanti. Un grande filosofo e pedagogista americano del XX secolo, John Dewey, diceva che quando votiamo ci portiamo in tasca tutte le nostre passioni, i nostri interessi, le nostre visioni e volontà, i nostri pregiudizi. Perciò, quando prendiamo la scheda e segniamo la scelta con una croce, dentro quella scheda e in quella croce ci sono tutto il nostro pensiero, tutto il nostro interesse esistenziale, economico e sociale, tutte le nostre ideologie e idee».
Perché vogliamo a tutti i costi un sistema democratico? Semplicemente perché non possiamo pensare di non essere persone autonome e libere; perché il nostro sviscerato amore per la libertà ci porta a volerne essere legati, anche a esserne insoddisfatti quando non funziona come dovrebbe, là dove ritenessimo che nostra libertà ne uscisse decurtata.
Tutto si fonda, appunto, sull’idea – molto concreta, tangibile e pragmatica – della libertà. «Dalla libertà – incalza la Relatrice – non abbiamo vie di fuga, perché ne abbiamo continuamente bisogno per scegliere. I grandi teorici del Diritto, da Montesquieu a Kant, a Hegel, hanno affermato che è proprio grazie a quest’immensa libertà che noi possiamo essere puniti; la società che punisce i responsabili dei crimini punisce i liberi», quelli che nella libertà si assumono il peso delle loro scelte. «La punizione, infatti, implica un sistema di potere costruito in modo tale che essa sia impartita in maniera non arbitraria, proprio perché gli esseri umani sono uguali nel valore e nella dignità».
Individualismo, interesse e solidarietà sembrano elementi tra loro in contraddizione e rispetto all’idea di libertà, ma sembrano tali solo in apparenza.
In effetti, «esistono almeno due forme d’individualismo. Uno è quello basato soprattutto sulla razionalità strumentale, sulla razionalità economica; un individualismo egoistico, tendenzialmente anarchico, comunque quello più tipico della teoria e della prassi liberiste. L’altro è quello che si basa sul riconoscimento della dignità dell’individuo. A questo tipo corrisponde una lettura della democrazia che non è soltanto sistema per selezionare i politici che poi amministreranno la cosa pubblica, ma qualcosa che riguarda i rapporti tra le persone all’interno della comunità» (SamueleAnimali, Prolusione).
La Professoressa Urbinati, da parte sua, ritiene che «l’individualismo non è necessariamente qualcosa di anti-sociale; certo, c’è anche un’idea d’individualismo contro la società, quello dei liberisti e dei neo-liberali, ma non c’è solo quello. Nella comunità democratica ogni Cittadino ha bisogno di essere un individuo singolo, con la sua specificità. È proprio di un sistema democratico-costituzionale rispettare e avere cura della dignità profonda della persona e della sua onorabilità».
Si tratta altresì di un individualismo che ognuno deve saper proteggere: «Guai a pensare che altri se ne debbano occupare! I giovani, in particolare, non devono commettere l’errore di pensare che il sistema vada avanti da sé (autopoiesis); che esso abbia la sua logica interna e che, perciò, è inutile che essi vi partecipino attivamente. Un sistema democratico non è una macchina che – una volta accesa – va da sola. Non è così. I sistemi democratici non si gestiscono da soli, perché appena noi ci tiriamo un po’ indietro, il bisogno di potere, che è distribuito in maniera uguale, riemerge. Perciò, guai a pensare che gli altri penseranno a noi».
Parliamo, qui, di un individualismo che, diversamente dalla sua naturale radice egoistica, è, invece, capacità di riconoscere chi siamo, attitudine ad avere un senso di sé, abilità ad avere sicurezza in noi stessi, principalmente nutrire il senso del rispetto di sé. Tutti elementi che costituiscono la condizione per l’uguale interazione con l’alterità.
L’interesse esistenziale con cui l’individuo si appresta a votare è espressione delle peculiarità proprie dell’essere umano: individuo che discute e che ama dialogare, che non accetta semplicemente di obbedire. La Persona è Cittadino che, per capire, vuole fare domande e, se il caso, che non teme di contestare; soprattutto, se necessario, di cambiare idea.
In un sistema democratico la parola “interesse” ha una valenza ambigua. «Ci sono due modi d’intenderlo – incalza la Professoressa Urbinati. Uno perché è virtù averlo (concezione repubblicana): dobbiamo avere interesse a essere migliori per il bene della comunità. L’altro, più umano, è perché “l’interesse è nel nostro interesse”, come occuparci della cosa pubblica così da controllare sempre l’esercizio del potere. Nell’esercizio dell’interesse taluni sognano la città ideale e perfetta. Altri lo fanno perché ritengono di non potersi fidare dei demagoghi: di quelli, cioè, che vogliono i voti perché ritengono che sia nel loro interesse occuparsi della cosa pubblica».
Esercitato come virtù propria del sistema democratico, l’interesse non è negativo; anzi, sarebbe meglio che il Cittadino fosse più attento al proprio interesse. E proprio qui s’inserisce il principio della solidarietà. Applicarsi in modo virtuoso all’interesse significa metterlo in relazione al bene pubblico, perciò realizzare una sorta di solidarietà civica. Il principio del “noi siamo gli altri”, cui sollecita la riflessione della Relatrice, è prendere atto che la nostra vita individuale e le nostre scelte dipendono enormemente dal rapporto che abbiamo con gli altri.
Perché, dunque, dobbiamo essere solidali? «Perché in democrazia gli individui sono uguali nelle condizioni e nelle possibilità. La solidarietà non è ideologia. Solidarietà di Cittadinanza democratica significa riconoscere che condividiamo lo stesso destino. Gli antichi dicevano che i Cittadini sono come in una barca nella quale alcuni esercitano un lavoro, altri ne fanno un altro, e tutti concorrono, nella complementarietà dei loro ruoli e delle loro funzioni, al benessere della collettività». Se la solidarietà fosse solo ideologia, ci sentiremmo cittadini isolati, perché, soli, saremmo perduti. Se, da un lato, la democrazia è condizione di libertà attiva, dall’altro lato la società democratica attiva è una condizione imprescindibile all’interno della quale ciascuno di noi può trovare il proprio posto e, così facendo, contribuire al raggiungimento del bene comune.
Certo è condivisibile l’affermazione della Professoressa Urbinati quando dice che «i politici “sono” perché siamo noi che li scegliamo». E che non siamo mai autorizzati a «pensare che in democrazia ci sia uno più potente degli altri: siamo noi che attribuiamo potere, perché la Costituzione dice che “la sovranità proviene dal popolo ed è lui che la esercita secondo…”».
Se le cose stanno veramente così, gentile Professoressa, Lei ha una spiegazione plausibile che spieghi agli Italiani, in particolare al Lettore di queste pagine, quale tipo di democrazia li obbliga a essere governati, da ben tre legislature, da Politici che essi non hanno mai votato?

Oreste Mendolìa Gallino