La
Rassegna Incontri culturali 2015/2016,
voluta dalla Biblioteca Diocesana “Pier Matteo Petrucci” e organizzata insieme
al Comune di Jesi e a Jesi Cultura, è terminata il 19 febbraio scorso; presso la
Biblioteca Planettiana-Sala Maggiore è stato ospite il Prof. Stefano
Petrucciani che ha trattato il tema “La democrazia tra crisi e trasformazione”.
Propongo
qui un breve riassunto della conferenza precedente, quella del 20 gennaio
scorso, dal titolo “Individuo democratico e la sfida individualista tra
interesse e solidarietà”. È stata tenuta, presso la Biblioteca Diocesana,
dall’eminente Prof.ssa Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica presso la Columbia University (USA), stimata editorialista
e politologa con un passato d’impegno politico al servizio della comunità
civile.
L’iniziale
citazione dell’opinione di Churchill riguardo alla democrazia ha illuminato
tutta la relazione della Professoressa e ha rappresentato il costante
riferimento per le sue numerosissime riflessioni. Il nucleo del pensiero del
grande statista inglese è che «la democrazia è un cattivo governo ma, tra tutti
i cattivi governi, è certo il migliore. Quindi, la democrazia è “un meno
peggio”».
Che
cosa, pertanto, rende accettabile la democrazia? Semplicemente che essa è un
riconoscimento dell’imperfezione umana, perché ammette che ogni decisione può
essere cambiata e che ciò avviene grazie alla cosiddetta “regola della
maggioranza”. Fatto non trascurabile, a quanto pare, perché la possibilità di
una seconda scelta che si concede al cittadino si fonda sul principio che egli
è Persona con un’entità finita, dunque imperfetta; e che, perciò, a lui spetta
sempre la facoltà (e il diritto) di dissentire dai politici che ha legittimato
a rappresentarlo, per le decisioni che prendono in favore della collettività,
mediante il proprio voto.
«Il
voto, tuttavia – come dice la Professoressa Urbinati –, non è “sì” e “no”, perché
è un’elaborazione, pure in continuo mutamento, e dentro di sé esso è molto più
di un semplice voto. Infatti, quando ci rechiamo a votare per questo o per
quell’altro, nella nostra mente noi facciamo una ricapitolazione, perché siamo
esseri giudicanti. Un grande filosofo e pedagogista americano del XX secolo,
John Dewey, diceva che quando votiamo ci portiamo in tasca tutte le nostre
passioni, i nostri interessi, le nostre visioni e volontà, i nostri pregiudizi.
Perciò, quando prendiamo la scheda e segniamo la scelta con una croce, dentro
quella scheda e in quella croce ci sono tutto il nostro pensiero, tutto il
nostro interesse esistenziale, economico e sociale, tutte le nostre ideologie e
idee».
Perché
vogliamo a tutti i costi un sistema democratico? Semplicemente perché non
possiamo pensare di non essere persone autonome e libere; perché il nostro sviscerato
amore per la libertà ci porta a volerne essere legati, anche a esserne
insoddisfatti quando non funziona come dovrebbe, là dove ritenessimo che nostra
libertà ne uscisse decurtata.
Tutto
si fonda, appunto, sull’idea – molto concreta, tangibile e pragmatica – della
libertà. «Dalla libertà – incalza la Relatrice – non abbiamo vie di fuga,
perché ne abbiamo continuamente bisogno per scegliere. I grandi teorici del
Diritto, da Montesquieu a Kant, a Hegel, hanno affermato che è proprio grazie a
quest’immensa libertà che noi possiamo essere puniti; la società che punisce i
responsabili dei crimini punisce i liberi», quelli che nella libertà si
assumono il peso delle loro scelte.
«La punizione, infatti, implica un sistema di potere costruito in modo tale che
essa sia impartita in maniera non arbitraria, proprio perché gli esseri umani
sono uguali nel valore e nella dignità».
Individualismo,
interesse e solidarietà sembrano elementi tra loro in contraddizione e rispetto
all’idea di libertà, ma sembrano tali solo in apparenza.
In
effetti, «esistono almeno due forme d’individualismo. Uno è quello basato
soprattutto sulla razionalità strumentale, sulla razionalità economica; un
individualismo egoistico, tendenzialmente anarchico, comunque quello più tipico
della teoria e della prassi liberiste. L’altro è quello che si basa sul riconoscimento
della dignità dell’individuo. A questo tipo corrisponde una lettura della
democrazia che non è soltanto sistema per selezionare i politici che poi
amministreranno la cosa pubblica, ma qualcosa che riguarda i rapporti tra le
persone all’interno della comunità» (SamueleAnimali, Prolusione).
La
Professoressa Urbinati, da parte sua, ritiene che «l’individualismo non è
necessariamente qualcosa di anti-sociale; certo, c’è anche un’idea d’individualismo
contro la società, quello dei liberisti e dei neo-liberali, ma non c’è solo
quello. Nella comunità democratica ogni Cittadino ha bisogno di essere un individuo
singolo, con la sua specificità. È proprio di un sistema democratico-costituzionale
rispettare e avere cura della dignità profonda della persona e della sua
onorabilità».
Si
tratta altresì di un individualismo che ognuno deve saper proteggere: «Guai a
pensare che altri se ne debbano occupare! I giovani, in particolare, non devono
commettere l’errore di pensare che il sistema vada avanti da sé (autopoiesis); che esso abbia la sua
logica interna e che, perciò, è inutile che essi vi partecipino attivamente. Un
sistema democratico non è una macchina che – una volta accesa – va da sola. Non
è così. I sistemi democratici non si gestiscono da soli, perché appena noi ci
tiriamo un po’ indietro, il bisogno di potere, che è distribuito in maniera
uguale, riemerge. Perciò, guai a pensare che gli altri penseranno a noi».
Parliamo,
qui, di un individualismo che, diversamente dalla sua naturale radice egoistica,
è, invece, capacità di riconoscere chi siamo, attitudine ad avere un senso di
sé, abilità ad avere sicurezza in noi stessi, principalmente nutrire il senso
del rispetto di sé. Tutti elementi che costituiscono la condizione per l’uguale
interazione con l’alterità.
L’interesse
esistenziale con cui l’individuo si appresta a votare è espressione delle
peculiarità proprie dell’essere umano: individuo che discute e che ama
dialogare, che non accetta semplicemente di obbedire. La Persona è Cittadino
che, per capire, vuole fare domande e, se il caso, che non teme di contestare; soprattutto,
se necessario, di cambiare idea.
In
un sistema democratico la parola “interesse” ha una valenza ambigua. «Ci sono
due modi d’intenderlo – incalza la Professoressa Urbinati. Uno perché è virtù averlo
(concezione repubblicana): dobbiamo avere interesse a essere migliori per il
bene della comunità. L’altro, più umano, è perché “l’interesse è nel nostro
interesse”, come occuparci della cosa pubblica così da controllare sempre
l’esercizio del potere. Nell’esercizio dell’interesse taluni sognano la città
ideale e perfetta. Altri lo fanno perché ritengono di non potersi fidare dei
demagoghi: di quelli, cioè, che vogliono i voti perché ritengono che sia nel
loro interesse occuparsi della cosa pubblica».
Esercitato
come virtù propria del sistema democratico, l’interesse non è negativo; anzi, sarebbe
meglio che il Cittadino fosse più attento al proprio interesse. E proprio qui s’inserisce
il principio della solidarietà. Applicarsi in modo virtuoso all’interesse
significa metterlo in relazione al bene pubblico, perciò realizzare una sorta
di solidarietà civica. Il principio del “noi siamo gli altri”, cui sollecita la
riflessione della Relatrice, è prendere atto che la nostra vita individuale e
le nostre scelte dipendono enormemente dal rapporto che abbiamo con gli altri.
Perché,
dunque, dobbiamo essere solidali? «Perché in democrazia gli individui sono
uguali nelle condizioni e nelle possibilità. La solidarietà non è ideologia. Solidarietà
di Cittadinanza democratica significa riconoscere che condividiamo lo stesso
destino. Gli antichi dicevano che i Cittadini sono come in una barca nella
quale alcuni esercitano un lavoro, altri ne fanno un altro, e tutti concorrono,
nella complementarietà dei loro ruoli e delle loro funzioni, al benessere della
collettività». Se la solidarietà fosse solo ideologia, ci sentiremmo cittadini
isolati, perché, soli, saremmo perduti. Se, da un lato, la democrazia è
condizione di libertà attiva, dall’altro lato la società democratica attiva è
una condizione imprescindibile all’interno della quale ciascuno di noi può
trovare il proprio posto e, così facendo, contribuire al raggiungimento del
bene comune.
Certo
è condivisibile l’affermazione della Professoressa Urbinati quando dice che «i
politici “sono” perché siamo noi che li scegliamo». E che non siamo mai autorizzati
a «pensare che in democrazia ci sia uno più potente degli altri: siamo noi che
attribuiamo potere, perché la Costituzione dice che “la sovranità proviene dal
popolo ed è lui che la esercita secondo…”».
Se
le cose stanno veramente così, gentile Professoressa, Lei ha una spiegazione
plausibile che spieghi agli Italiani, in particolare al Lettore di queste
pagine, quale tipo di democrazia li obbliga a essere governati, da ben tre
legislature, da Politici che essi non hanno mai votato?
Oreste Mendolìa Gallino