martedì 13 ottobre 2015

IL PROGRESSO TECNOLOGICO

Impegnarci nella ricerca di una Via per l’avvenire dell’umanità è faticoso ma è urgente; «la rifondazione dell’Umanesimo non è né un dogma provvidenziale né un gioco dello spirito: è una scommessa. L’era del sospetto non basta più. Di fronte alle crisi e alle minacce sempre più gravi, è venuta l’era della scommessa. Dobbiamo avere il coraggio di scommettere sul rinnovamento continuo delle capacità degli uomini e delle donne di credere e di sapere insieme. Perché l’umanità possa perseguire a lungo il suo destino creativo».
La riflessione di Julia Kristeva, filosofa e psicanalista lacaniana bulgara, mi aiuta a commentare la conferenza “Vivere col tablet: quali sfide?”, tenuta il 17 corrente presso la Planettiana dal Prof. Pier Giuseppe Rossi, docente di Tecnologia dell’Informazione presso l’Università di Macerata.
Biblioteca Petrucciana, Comune di Jesi e Jesi Cultura sono promotori e organizzatori della rassegna d’incontri culturali 2014/2015, dal titolo, appunto, Alla ricerca di una Via per l’avvenire dell’umanità.
Mons. Attilio Pastori, suo maggiore responsabile e promotore, s’interroga e, al tempo stesso, le sue domande tracciano un cammino di ricerca: «Non c’è soltanto un mondo e soltanto un tempo: 
il Vascello continua la sua corsa. Dove ci porterà? Verso un progresso ininterrotto? Non possiamo più crederlo. Il filosofo Edgar Morin propone di sostituire a una via dello sviluppo che produce sottosviluppo,
 la via di una politica della civiltà, nella prospettiva di un Nuovo Umanesimo».
La proposta del Professor Rossi parte, certo, dalle tecnologie che obbligano l’Uomo ad accettare il confronto con un progresso continuo, un futuro attualizzato che sta mutando perfino l’antropologia. Il tablet, perciò, è solo un paradigma: nella sua innumerevole offerta di utilizzo, lo strumento tecnologico ha mutato il pensiero e il comportamento umani, ponendo l’individuo in relazione con una collettività in cui, spesso, egli si mescola nel mare magnum dell’alterità diventata pressoché virtuale in una società “liquida”, per usare l’espressione coniata dal famoso sociologo e filosofo polacco, di origini ebraiche, Zygmunt Bauman a proposito della postmodernità.
Tecnologie, secondo Rossi, «che hanno due caratteristiche contraddittorie: da una parte l’Uomo le modifica usandole, dall’altra egli ne dipende» e «l’uso che egli deve farne e come acquisirne una modalità critica» sono gli argomenti che prevalgono sull’antinomia sterile tra chi le rifiuta totalmente e chi le userebbe sempre. Il fenomeno – prosegue Rossi – va affrontato rispondendo a due domande; la prima è: come sta cambiando oggi il modo di conoscere e di apprendere? Imparare significa “generalizzare”, passare dal caso specifico alla legge generale e formulare le regole per affrontare i problemi che ci circondano. «In passato il passaggio dalla teoria alla pratica era “lineare” e dalla prima derivava l’applicazione; il bagaglio teorico acquisito a scuola serviva per affrontare la vita. Oggi prevale l’approccio “ricorsivo”, cioè la formazione continua, non intesa in termini temporali ma quella capace d’insegnare mentre si lavora e di generare continuamente modelli della realtà in cui si vive, per capirla e rappresentarla a diversi livelli».
Alla seconda domanda: che tipo di professionista sarà mio figlio, quali competenze chiede oggi il mondo del lavoro?, Rossi risponde «che il professionista attuale costruisce progetti innovativi per problemi innovativi: le sue conoscenze sono strumenti per assemblare strategie specifiche; perciò, gli sono richieste numerose competenze, tra cui: la riflessione e la capacità d’imparare e capire come farlo; l’abilità per creare continuamente modelli cui fare riferimento, campioni di rappresentazione della realtà capaci di descriverla e di capire com’è fatta, è il segreto per trovare soluzioni a quei problemi innovativi; soprattutto, il professionista di oggi deve avere grandi doti di comunicazione, perché spesso egli persegue un obiettivo in squadra».
La complessità del mondo in cui l’Uomo del Terzo Millennio vive e lavora, il problema della rappresentazione della realtà cui Rossi fa riferimento si affronta con «un recupero del pensiero umanista, un nuovo dialogo, una nuova alleanza tra questo pensiero e quello scientifico». Solo così possiamo vedere «la tecnologia come capacità di organizzare, di padroneggiare, di costruire strutture complesse».
Il Nuovo Umanesimo sorge proprio da quest’alleanza: figlio della cultura europea, esso è incontro di differenze culturali, in un mondo complesso, favorite dalla globalizzazione e dall’informatizzazione, e rispetta, traduce e rivaluta le varianti dei bisogni di credere e dei desideri di sapere che sono patrimonio universale di tutte le civiltà. È in questa prospettiva che va atteso il prossimo dibattito offerto dalla rassegna: quello del 13 aprile, sempre alla Planettiana, in cui il Professor Givone, docente di Estetica presso l’Università di Firenze, risponderà alla domanda se sia possibile un Nuovo Umanesimo nel dualismo tra disperazione e speranza dell’Uomo.
«Un nuovo umanesimo – come dice il Cardinale Angelo Scola – che non sia altro che la capacità insita nella fede cristiana di generare cultura, cioè di proporre agli uomini e alle donne di ogni tempo, partendo dal loro peculiare contesto storico, sociale e culturale, un senso per vivere il quotidiano».

Oreste Mendolìa Gallino

IL CAMMINO DEVOZIONALE

Un proverbio keniota recita: “Se vuoi arrivare primo, corri da solo. Se vuoi andare lontano, cammina insieme con altri”. Non è un caso che siano i kenioti a vincere le maratone; pare che dipenda dall’architettura del corpo della razza nera: caratteristica fisica che la razza bianca, ahimè, non ha (ve lo dice uno che di corsa se ne intende...). Bene: loro si tengano le maratone, noi ci coccoliamo la tradizione secolare dei “cammini”.
Sapevate che il 2016 è l’Anno dei cammini? Preludio a un possibile, ancora più intrigante, Anno europeo dei cammini? L’attenzione ai cammini storici, a tutti i cammini storici italiani, e la consapevolezza del ruolo determinante che essi possono svolgere per lo sviluppo sostenibile del nostro Paese e per la tutela del nostro patrimonio culturale e ambientale e del nostro benEssere: sono queste le riflessioni promosse dalla rete dei cammini anche in occasione dell’expo, dove la rete è presente, ospite dell’Associazione nocetum onlus di Milano, presso la Cascina Triulza, il settore di expo dedicato alla Società Civile e al Terzo Settore.
Mi càpita sulla scrivania, perciò come il cacio sui maccheroni, un interessante libro edito da Marcianum Press, titolato il cammino devozionale di san rocco in italia. Storia, arte e tradizione. Sono gli atti del convegno tenutosi nella Scuola Grande di san Rocco in Venezia nel 2013 e solo oggi dati alle stampe.
Certo, la domanda è legittima: che cosa ci azzecca san Rocco con i cammini devozionali? Durante l’omelia pronunciata nella Messa conclusiva di quel convegno, il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, diceva che «Il pellegrinaggio ha radicalmente caratterizzato e plasmato la vita di san Rocco... La sua è stata una vita movimentata, pienamente offerta al Signore come fu per gli antichi profeti biblici. L’iconografia raffigura san Rocco come uno di questi antichi profeti, con l’abbigliamento proprio del pellegrino: cappello a falda larga per proteggersi dalla pioggia gelida e dal sole, col mantello a mezza gamba – il tradizionale sanrocchino – e, in mano, il lungo bastone, con legata la zucca per l’acqua e, appesa al collo, la conchiglia per bere lungo il cammino alle polle sorgive».
Non so se san Rocco conoscesse il proverbio keniota; tuttavia, nella sua vita peregrinante egli è andato lontano perché ha camminato con “altri”, infatti, «essere stato un pellegrino – continua Moraglia – ha indubbiamente arricchito la sua umanità e da credente ha potenziato la sua sensibilità trasformandola nella volontà di dedicarsi agli altri secondo l’insegnamento di Gesù». Essere pellegrino come san Rocco, dunque, è un esempio d’impegno nella carità, nella consapevolezza che il cristiano vive il cammino terreno nella dedizione alla cura del prossimo, una vera e propria DeImitazione Christi.
Non è un caso che quel testo religioso diffuso di tutta la Letteratura cristiana occidentale, secondo solo alla Bibbia, esordisca con le parole: “Chi segue me non cammina nelle tenebre” (Gv 8,12). Il cammino, il camminare, dunque: vocazione del cristiano all’alterità, un po’ come Rocco, Santo francese, per di più laico, «privo del carisma connesso con un voto o una ordinazione», come se la dedizione gratuita al prossimo non possa essere anche un carisma del laicato...
Sfoglio un libretto d’itinerari dello spirito: «[...] la figura del pellegrino ha da sempre affascinato storici e scrittori: il vero pellegrino è una persona veramente libera; il vero pellegrino, come anche il santo, ha davanti a sé un orizzonte che va al di là di ciò che può cogliere con il semplice sguardo; il vero pellegrino ha davanti a sé una strada per diventare santo».
Come san Rocco, siamo pellegrini e stranieri sulla terra: ce lo ricordano pure le Sacre Scritture (1 Pt 2,11; Eb 11,13): siamo solo di passaggio, in prestito.
Qualunque cammino facciamo su questa terra è pervaso dalla nostalgia che abbiamo della nostra vera patria, della nostra meta che è l’Eternità.
San Rocco o qualunque cammino itinerante in fondo rappresentano il nostro vero e autentico pellegrinaggio verso la Gerusalemme Celeste, quando – per dirla come Teilhard de Chardin – l’Umanità convergerà nel Punto Omega, il centro della cristificazione dell’Universo.

Oreste Mendolìa Gallino

PENSARE E AGIRE NEL PRESENTE

“Navigare l’insicurezza o gestire la complessità?”: il filosofo Riccardo Dottori, cittadino di Moie, ha tenuto una conferenza sulle “Riflessioni, le aperture e le suggestioni per il pensare e l’agire nel presente”.
Indagine prevalentemente sociologica di carattere politico e culturale, l’intervento di Dottori non esita a verificare come e quanto il ruolo dell’individuo sia fondamentale per il destino dell’umanità, in funzione della “qualità morale” che ciascuno deve consacrare alle relazioni umane; educazione al dialogo e alla condivisione, dunque, possibile solo attraverso l’autodisciplina della persona umana, intesa come primitivo e primario valore senza il quale la speranza non esiste e il futuro non si costruisce.
La riflessione di Dottori è complessa e articolata, perché si fonda sulla disamina di quelle che sono considerate le “sfide” fondamentali che l’umanità deve affrontare e superare per coltivare la speranza nel futuro del mondo.
La prima sfida è quella tra la razionalità e la pianificazione del futuro, che sembra cozzare contro i limiti del nostro pianeta.
Nella società occidentale contemporanea – prosegue il filosofo – la razionalità non è altro che la razionalizzazione sia della produzione sia delle risorse del nostro pianeta, perché essa sembra essere l’arma più propria per la sussistenza e la sopravvivenza dell’umanità che tende continuamente a crescere.
Il problema che ormai pone la nutrizione dei 10 miliardi di persone e la miseria in cui versa la grande maggioranza delle popolazioni africane e, in parte, delle asiatiche, nonché la situazione di endemica arretratezza e conflittualità negli Stati Uniti, nell’America Latina e nei Paesi post-comunisti, pongono seri interrogativi sul futuro dell’umanità.
Questa non è la sola sfida, perché con essa s’incrocia un’altra sfida che viene da un principio fondamentale della civiltà occidentale in quanto cristiana, ed è quella della solidarietà. È impossibile pensare di pianificare il nostro futuro senza il valore fondamentale della solidarietà. La razionalità non è sufficiente.
Il regime dell’iniziativa e della concorrenza nella società in cui viviamo tende sempre all’accaparramento delle risorse per l’assicurazione della propria sopravvivenza o della propria egemonia. Nei Paesi più sviluppati del panorama mondiale non si lotta solo per la sussistenza ma per l’egemonia vista, questa, in quanto condizione imprescindibile per la sopravvivenza.
Se nell’Occidente europeo si perde la sfida della solidarietà si vanifica anche la sfida della pianificazione razionale e pacifica del nostro futuro.
Sotto certi aspetti, questa sfida è contrapposta alla precedente, poiché si tratta della sfida della solidarietà tra gli abitanti del pianeta contro la corsa all’accaparramento delle risorse.
Un altro dei valori fondamentali della tradizione occidentale, condizione basilare per la pianificazione razionale all’insegna della solidarietà, è la democrazia.
In Grecia è il “potere del popolo”: potere garantito dal dialogo tra persone libere e che può essere inteso come il dialogo tra i vari segmenti costitutivi della società oltre che al dialogo tra i singoli individui.
Senza democrazia e senza dialogo, pure a livello internazionale tra Paesi, non funziona la razionalizzazione delle risorse del pianeta.
L’ultima sfida è quella del dialogo tra le diverse religioni e le diverse civiltà. Questa è forse la sfida più difficile da realizzare.
Le società e le civiltà non occidentali sembrano non tenere in alcuna considerazione la democrazia e il dialogo; alla base di queste civiltà – perché ne determinano gli scopi e lo stile di vita –, esistono religioni insensibili – se non contrarie – al confronto, religioni che credono di essere uniche detentrici della “verità”: sia per ragioni di esercizio del potere da parte delle classi dominanti (cui non vogliono rinunciare) sia perché, in verità, “democrazia” e “dialogo” ammettono, per definizione, che l’“altro” (cioè le altre religioni) possa essere nel vero.
La negazione della democrazia, che in buona sostanza si traduce nella negazione dei diritti della Persona, della sua libertà critica e del dialogo in generale, è lo spettacolo cui quotidianamente assistiamo e che non ci fa bene sperare per il nostro futuro.
All’inizio de “La Repubblica”di Platone, la colossale opera di filosofia che mai ci stancheremo di ammirare e di capire, chiedendoci invano se si tratta di un’opera politica, o di educazione civile, o d’indagine filosofica, o di progetto utopico di una società futura, l’Autore propugna il principio del dialogo come condizione essenziale per lo sviluppo della civiltà, di ogni convivenza civile e, quindi, di quello stato ideale che ha, appunto, nel dialogo il suo oggetto fondamentale di realizzazione della “polis” (cfr. Giuseppe Cambiano, Polis. Un modello per la cultura europea. Laterza, 2000).
Platone indica come compito della vita mortale la via che tende verso l’alto, verso la via immortale o il “viaggio millenario” (termine che sta a significare che i Platonici credevano nella reincarnazione delle anime), che consiste nel praticare giustizia o saggezza, e tende a sottolineare che non esiste alternativa alla convivenza civile se non quella basata sulla mutua persuasione, e quindi sul dialogo.
Ne “La Repubblica”, infatti, è proprio l’espediente dialogico che permette a Platone il confronto tra i vari personaggi: contro la violenza di chi rifiuta il dialogo non si può fare nulla ma solo invitare l’“altro” alla persuasione piuttosto che all’esercizio della prepotenza; proprio nel momento in cui cessa il dialogo, perché l’“altro” non ha più argomenti da contrapporre, iniziano la violenza e la guerra.
Un altro principio ispiratore che emerge dal pensiero platonico a proposito del dialogo è quello secondo cui vincere se stesso è la prima e la migliore di tutte le vittorie, non fosse altro perché, in questo modo, si scongiurano la guerra e la violenza da essa riveniente.
Al contrario, l’essere vinto da se stesso è la cosa peggiore e più vergognosa che possa accadere ad un individuo.
Si tratta ora di capire che cosa significa “vincere se stessi”.
La piena legittimazione della persona umana sta nella sua possibilità di vincere la guerra con se stessa.
Pure in questo frangente la lezione è quella che ci viene da “La Repubblica”: soltanto quell’affidatezza interiore, che proviene dal nostro equilibrio intimo, dalla comunione delle nostre facoltà sensibili ed intellettuali, è la base di tutte le virtù civili. È questo che significa essere esenti dalla violenza!
Tuttavia, la vittoria su se stessi non va intesa come un esercizio alternativo della violenza, come è accaduto nel Medioevo o in una certa parte del Cristianesimo, ma come temperanza esercitata e raggiunta con l’esercizio.
A tale proposito, Platone afferma che non si può essere fidati cittadini se non si è fedeli a se stessi. È in questa originaria “affidatezza”, affidabilità, fedeltà che si fonda la base del giusto rapporto tra i cittadini, quindi la base del diritto e della pace. Ne consegue che la composizione dei conflitti sociali va intesa come esercizio del dialogo. La pace, infatti, non può essere fondata sulla vittoria di alcuna tra le parti in causa, ma solo sul principio fondamentale del confronto, sull’armonia raggiunta attraverso il dialogo che è, appunto, virtù e base del diritto, della giustizia e delle giuste leggi.
È legittimo chiedersi: qual è l’effettiva possibilità di dialogo, quale la reale apertura dialogica?
Potrebbe essere infatti possibile che nel dialogo stesso ci sia una sommessa, una velata possibilità che esista una certa forma di violenza da parte di qualcuno: quella di pretendere di essere nel giusto e nel vero e di volere, per questo motivo, persuadere l’altro con tutti i mezzi dell’arte del discorso.
Va altresì sottolineato che non vi è alcun dialogo tra le parti se entrambe non ammettono di sé, per principio e con coraggio, che possono avere torto. Non esiste dialogo che porti alla pace, e alla legittimazione dell’“altro” in modo reciproco, se il confronto inizia col pre-giudizio (cioè il giudizio preventivo) di qualcuno ad avere ragione.
La reale apertura dialogica pretende innanzitutto di mettere in discussione se stessi e cioè la propria personale presunzione di essere nel vero e nel giusto. Ecco perché per imparare a dialogare effettivamente e per costruire un futuro dobbiamo imparare… ad avere torto. Perché “avere torto” significa trovare l’entusiasmo di mettersi in discussione, di cercare e sperimentare nuove strade, di fare autocritica, di saper ascoltare l’“altro” e smettere di ubriacarsi della propria voce.
Soltanto allora incontreremo l’“altro”, perché lo riconosceremo nella sua diversità, e nell’incontro tra “i diversi” sapremo collaborare per unire forze complementari al mantenimento degli equilibri mondiali che assicurano il futuro del mondo.

Oreste Mendolìa Gallino

SOGGETTIVITÀ E GODIMENTO

Libertà immaginaria nella crisi del postmoderno? Le illusioni della libertà nell’epoca dell’eterno presente. è il turno del professor Petrosino, docente di Filosofia ermeneutica presso la Cattolica di Milano. “Soggettività e godimento” è il tema ed è un invito a guardarci allo specchio della nostra coscienza di Persone e di Cittadini, senza fraintendimenti o ipocrisie, dando il giusto nome alle cose. Lezione senza moralismo, s’intende; aveva ragione Levinas (filosofo francese, 1905-1995) quando diceva che «la cosa importante è sapere se parlando di morale non si cade nel moralismo».
Il godimento (che è un bene, non certo un male) è un fatto ontologico, «non è una cosa schifosa di cui vergognarsi»; anzi, rappresenta il punto essenziale del costituirsi dell’identità della Persona, del soggetto umano. è la Persona, non l’animale, che fa esperienza di una “pienezza”, perché in gioco c’è il problema della “presenza”. Io sono, è ontologia (dal greco ón, óntos, ‘io sono’ + lógos, ‘parola’), consapevolezza del proprio Essere: lo dice la Persona quando fa esperienza dell’in-sé, cioè di se stessa in relazione a.
Il bambino percorre i primi passi nel raggiungimento della propria identità, del proprio Io, attraverso il “mIo”; «Questo è mio» permette alla sua piccola coscienza di confermare se stesso rispetto al mondo circostante: “il mio giocattolo”, “la mia mamma” ecc.
Il “mIo” nell’età adulta è pericoloso perché disgrega l’identità della Persona! Accade che il godimento, da bene in sé e per sé, diventi male (cioè non si è fermato sul ciglio del labile confine tra il “buono” dal “cattivo”) quando la Persona vive protesa verso desideri compulsivi e incontrollati, labirinti che narcotizzano la volontà. La “dipendenza”, infatti, significa dipendere da ‘qualcosa’ (alcol, tabacco, droga, sesso ecc.), oppure da ‘qualcuno’, significa permettere che la propria identità esista solo grazie a un mediatore che la certifica.
Il “mIo” è pedagogico sulla bocca del bambino, non è educativo nel cuore dell’adulto. Attraverso i bisogni, il bambino scopre la propria identità; se un adulto cerca nell’oggetto ciò che esso non è e non può dargli per appagare la propria sete, si ridurrà a inseguire freneticamente un bisogno dopo l’altro. è l’approdo ai desideri compulsivi. Il godimento si trasforma in male quando è schiavo di un desiderio continuo e irrefrenabile. è la patologia di Don Giovanni, “il collezionista” di donne: una vale l’altra, perché ella è oggetto, non godimento appagante.
è la Persona – non l’animale – che fa continua esperienza della “mancanza”, intesa come il “non-tutto”. E la mancanza è il filo conduttore del desiderio. L’angoscia di Heidegger (filosofo esistenzialista tedesco, XIX-XX secolo) non è paura ma consapevolezza del “buco”, del limite umano.
Come ogni cosa che esiste, la Persona è ‘singolarità-individualismo’, ma è anche ‘soggetto’ e ne fa esperienza attraverso il godimento: «godo, perciò sono». Ben inteso: il “buco” è «qualcosa rispetto cui qualunque oggetto è inadeguato». Il problema sta nel fatto che la Persona è masochista (e autolesionista) se trasforma la logica del desiderio in logica del godimento.
“Desiderio smodato”, quello del godimento alterato dal Male, che la società consumistica, ovviamente, sa che è molto bene annidato nel cuore umano. Nella società dei consumi l’oggetto rivela prima o poi la propria identità-sostituibilità, cioè il suo non essere capace di appagare alcun desiderio reale-definitivo; perciò la Persona tende a scartarlo e a sostituirlo in breve tempo, illudendosi, in un circolo vizioso, di trovare ciò che non troverà mai. Il continuo fluire di oggetti da consumare, i messaggi pubblicitari suadenti esistono perché la Persona non faccia esperienza del proprio “vuoto”. Esperienza tragica il vuoto, se non siamo capaci di farci pace e di con-viverci (viverci con)!
Grandi uomini sono quelli che non indietreggiano di fronte alla vanità del desiderio ma gli tengono testa.
«Vivi!», lo dice pure la Parola di Dio, «accetta di essere il “buco” che sei, con i tuoi limiti, ma vivi e sii Persona».
Il serpente non inganna Eva soltanto con una menzogna ma fa leva sull’orgoglio di lei: «Tu sei un non-tutto, dunque sei niente; se mangi questa mela diventerai Dio, cioè tutto». Ella non è capace di tenergli testa: «Mi stai imbrogliando! Io faccio esperienza del Tutto ogni giorno; che bisogno ho, io, di essere il Tutto?», perciò cade nella trappola.
L’esperienza di Maria è tutt’altra cosa: è consapevolezza (coscienza) di non essere all’altezza; ella ha fatto pace col suo essere un non-tutto, è capace (e umile) tanto da mettersi nelle mani del Tutto, di con-fidare (avere fede) in Dio.
Nell’opera postuma “Ontologia della libertà”, il filosofo Pareyson scriveva: «è nel Dio prima di Dio che risiedono il nulla e il male come possibilità superate e vinte. L’esistenza di Dio e la sua scelta del bene sono l’atto originario di una storia eterna (…) La negatività e il male sono presenti in Dio come possibilità prevedute ma scartate (…). è l’Uomo che risveglia sulla scena cosmica il male che era sopito in Dio (e se ne appropria con un atto di orgoglio)».

Oreste Mendolìa Gallino

FELICITÀ E DENARO

La crisi: declino di valori o punto di svolta? Il 22 Febbraio è il turno del Prof. Silvano Petrosino, docente di Filosofia Ermeneutica alla Cattolica di Milano; tema dell’incontro, “Felicità e denaro”.
«Quante volte abbiamo detto o sentito, facendo il verso a certi stereotipi: “Il denaro non fa la felicità, però è meglio averlo”? è una cosa ovvia e di buonsenso, sulla quale siamo tutti d’accordo, ma non merita attenzione più di tanto. Perché? Perché è un’indagine del problema che porta da nessuna parte; infatti, non risponde alla domanda: “Come mai l’Uomo cerca sempre il denaro pur sapendo che lì non c’è la felicità?”». Questa, in sintesi, la premessa di Petrosino che, tuttavia, incalza costruendo il suo intervento sulla distinzione tra Bisogno e Desiderio.
«L’uomo, poiché essere vivente, come gli animali, è costituito da bisogni ed è proteso alla continua ricerca del piacere, del godimento, del compimento. La vita è la forza che ci spinge a cercare un soddisfacimento nel piacere. Su questo punto, tutte le posizioni materialistiche hanno ragione».
Tuttavia, l’Uomo non è solo ricerca di godimento, perché è abitato da un desiderio che non coincide col godimento, che non si risolve con la ricerca del godimento; egli è abitato da qualcosa (cui egli ha tentato, nel tempo, di dare nomi come “felicità”, “pienezza” ecc.) che va al di là del desiderio e del suo (improbabile) compimento nel godimento, perché non s’identifica a livello dell’oggetto. Infatti, dice Petrosino, «ciò che caratterizza il desiderio è che esso non è in relazione a un oggetto, perché l’Uomo non è solo un insieme di bisogni».
Qui sta il punto di svolta della riflessione. Il Professore cita il filosofo materialista sovietico, di cultura stalinista, Kojève (1900-1968): “è certamente corretto dire che l’Uomo è presente nella Natura. Occorre, tuttavia, aggiungere subito che egli è la presenza di un’assenza. L’animale realizza il suo desiderio della realtà materiale assimilandola: ha fame?, mangia per soddisfare quel desiderio, ed è quello che mangia. E se è vero che pure l’Uomo è quello che mangia, egli, però, resta desiderio in quanto tale. Nell’animale il desiderio si annienta; il desiderio umano, invece, resta quello che è persino nella sua soddisfazione”.
Indipendentemente dalla fede, sta qui la descrizione fenomenologica di che cosa è l’Uomo.
Il riferimento di Petrosino al mondo della fiaba è azzeccato: «Quando Tizio deve enumerare tre desideri alla fatina di turno, chiede questo, quello e quell’altro… salvo poi chiederle se può esporre un altro desiderio, poi un altro, un altro ancora e così via. Sarebbe meglio dirle: “Vai a quel paese!”, perché ella chiede di numerare l’innumerabile».
L’uomo, dunque, è abitato da «un desiderio senza nome che lo pone in una condizione di continua apertura, di continua attesa, di continua ricerca di qualcosa rispetto al quale il godimento che gli deriva dal possesso di un oggetto risulta sempre inadeguato». Il filosofo francese Lévinas (1905-1995) affrontò l’inconsistenza di questo godimento dicendo che “Il desiderio è l’infelicità dell’uomo felice”, con ciò ammettendo, come sottolinea Petrosino, che «quando noi raggiungiamo l’oggetto del nostro godimento, in quel preciso momento – anziché avere pienezza – proviamo un sentimento di nostalgia, di malinconia». Sono le parole che Goethe mette in bocca a Werther (1774) dopo che il giovane ha conquistato Carlotta: “Sono felice, eppure sono triste”.
Questo accade perché l’Uomo non può mentire sul suo desiderio, perché tale desiderio non è un oggetto ma è felicità, è pienezza, è Dio. È a questo livello che l’umano emerge nella sua assoluta grandezza. A che cosa risponde, per esempio, l’anelito che abita ogni forma di Arte? Risponde a una condizione di costante “inquietudine”: termine che non vuol dire “nervoso” ma quell’infelicità del felice in cui il desiderio resta tale anche nella soddisfazione; l’Uomo è questo: un essere in-quieto, aperto, in-attesa-di, in uno stato di continua urgenza.
È così che l’unica risposta da dare alla fatina non sta nel soddisfacimento dei tre desideri ma nella richiesta della sapienza, quella che chiede Salomone: che non è un oggetto ma «un modo di vivere e per vivere da uomini il desiderio che c’inquieta». “Da uomini” vuol dire riconoscere un’inquietudine, una frattura; che c’è sempre qualcosa al di là e, al tempo stesso, evitare quello che noi – invece – non evitiamo, cioè la menzogna sul desiderio. Infatti, che cosa fa l’Uomo continuamente? «Cerca di tradurre la logica inquietante del desiderio nella logica quieta del godimento; egli cerca continuamente di autoconvincersi che ciò di cui ha bisogno è un nuovo “questo” o un nuovo “quello”… e che se questo godimento diventasse di più, di più e di più, il possesso garantirebbe pace. Non è così!».
Lo psicanalista Lacan (1901-1981) diceva che “l’essenza dell’oggetto è il fallimento”, «non in quanto oggetto, tiene a precisare Petrosino; ma quando l’oggetto diventa la risposta al desiderio, quello è il momento in cui nasce l’idolo. E l’idolo, oggi, non è solo il denaro ma il potere (vero punto d’appoggio), lo stesso potere che Satana offre a Gesù nell’ultima tentazione del deserto (Mt 4,1-11)».
Paperon de’ Paperoni, conclude il Professore, «non è per nulla un avaro, perché gode della possibilità di possedere. Egli ha capito che il problema non è spendere il denaro ma averlo, per poter vivere continuamente nell’illusione di ciò che potrebbe possedere ma che è meglio non possedere, perché se lo possedesse si rivelerebbe il fallimento.
Il denaro, in sé, non è male ma lo diventa quando è idolatrato come risposta al desiderio».
Personalmente credo necessario citare ancora Sant’Agostino nel giro di pochi giorni: «Quia fecisti nos ad te, Domine, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» (Tu ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te).
Non è forse questa pace il “vero (e unico) punto d’appoggio” che permette all’Uomo di non rimanere “sospeso” nella sua inquietudine esistenziale?

Oreste Mendolìa Gallino

CAPOVOLGIMENTO BENE-MALE

Un assunto, provato non solo dalla riflessione filosofica ma dall’esperienza di tutti i giorni, recita che l’Uomo è un essere talmente strano d’aver abitualmente la capacità di trasformare il Bene in Male. “Abitualmente”, cioè “per abitudine”. O forse per un mistero legato alla sua natura? Il problema non è irrilevante, perché c’è in gioco il capovolgimento dei valori che sta alla base della Morale.
A porre il problema è stato il Professor Petrosino, docente presso la Cattolica di Milano, in occasione della rassegna Filosofiamo promossa dall’Associazione politica Jesiamo, che si è svolta presso la Circoscrizione di Via San Francesco.
Petrosino non nasconde la buona fede dell’individuo in genere che, se interrogato a proposito, dice d’essere propenso al Bene. Tuttavia, il demone dell’Ego è in agguato: l’individuo celebra di sé la liturgia dell’individualismo, fino a trasformarsi in una macchina narcisistica distruttiva.
«In genere – prosegue Petrosino – l’evoluzione dell’Io passa dal “mio” infantile ma è un “mio” superabile, perché transitorio, evolutivo». Infatti, se nel bambino è il pedaggio da pagare perché egli possa “calibrare” la sua esperienza di sé in rapporto al mondo che lo circonda, nell’adulto la coniugazione a oltranza del “mio” è spia di narcisismo doloso: l’ostentazione del “m-io” diventa assuefazione all’Io.
La bellezza fisica, per esempio; certo, essa è un valore positivo che, oltretutto, non va trascurato, ma quando la sua ostinata ricerca diventa ossessiva, quando il proprio corpo diventa idolo, essa si trasforma in cosa negativa e mortifera. L’anoressia è un esempio.
Un caso di capovolgimento del Bene in Male, oggetto di un’appassionata riflessione in ogni tempo e latitudine, è l’episodio di Genesi 11,1-9, quello della costruzione della torre di Babele. Babele è l’elogio dell’insieme degli individui e della loro capacità di coordinarsi per costruire una città, la cosiddetta “città ideale”. Pure costruirvi una torre è cosa bella, perché essa è allegoria dell’Uomo che si eleva a Dio.
In Babele non c’è capo e nessuno ordina, non esiste violenza e la democrazia vige indisturbata. Qualcosa, tuttavia, qualcosa di misterioso, interrompe la costruzione, qualcosa “va storto” e Dio scompagina il progetto dell’umanità e ne confonde le lingue «perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
Un commento del Midrash (la tradizione ebraica sulla Torà) rivela che gli uomini erano talmente “presi” dalla costruzione che quando un individuo cadeva dalla torre succedeva nulla, ma se fosse caduto un mattone, tutti ne avrebbero pianto. Un’allegoria, questa, evidente disprezzo della vita umana per alimentare l’imperativo di “elevarsi fino a Dio”; evidente rifiuto della dimensione orizzontale, quella dell’incontro con l’altro, per alimentare soltanto quella verticale dell’anelito alla divinità. Evidentemente a discapito del buon senso!
«Perché, – dice Petrosino – quando gli uomini in cima alla torre guardano in basso sono colti dalla vertigine? Perché l’Uomo, ubriacato dal potere, dimentica di guardare avanti e attorno a sé: vuole guardare Dio ma non guarda il fratello che ha accanto, un fratello che nell’orfano e nella vedova, nell’ammalato e nel povero, nel profugo e nel rifugiato» è salito sulla croce del Cristo e ne ha preso le sembianze, è delirante prossimo alla morte e denuncia l’abbandono.
Ogni progetto, seppur lodevole, in cui l’individuo punta in alto dimenticandosi del prossimo, è un’operazione che non esita a trasformarsi in una distruzione, una perdizione: è così che la comunità si trasforma in comunanza. E la comunanza è senza corpo e senza passioni. La comunanza non è comunione, perché la comunione è somma d’individualità, è relazione diretta con l’altro. Nel Midrash gli angeli chiedono a Dio d’intervenire con urgenza per porre fine a quella scellerata situazione: «Non vedi che gli uomini hanno perso il senso della loro umanità?». E Dio confonde le lingue perché gli idiomi diversi obblighino gli individui a sforzarsi di “capire”; parlare la stessa lingua è semplice, si rischia pure di annoiarsi; imparare la lingua dell’altro esige impegno…
Come si fa, dunque, a capire che il Bene si sta trasformando in Male? Quando ci dimentichiamo dell’altro e, all’occorrenza, di avere cura di noi stessi e di farlo, s’intende, con equilibrio.

Oreste Mendolìa Gallino

EUFORIA DELL'EFFIMERO

Chi l’avrebbe mai detto? Nel nostro tempo, inzuppato di effimero e di precarietà, la Bibbia potrebbe diventare cattiva maestra. Sì, non storcete il naso: esempio cattivo, s’intende, se essa serve per incrementare la deriva in cui ci stiamo muovendo, una deviazione del senso della vita dal suo centro (nucleo) che è, appunto, la Parola di Dio come verbalizzazione del Verbo, così inteso per eccellenza, il Figlio di Dio che è (pure) uomo.
Vado con calma e mi muovo anche con circospezione: so che il terreno è minato. Tento di riassumere per voi, interessante (e utile) materiale di riflessione per tutti, un editoriale del Prof. Silvano Petrosino (cfr. Voce della Vallesina del 29 gennaio 2012, pag. 5) apparso su Avvenire (20/9/2011) che, a sua volta, ne commenta uno (e se ne discosta, fortunatamente) di Marco Liera, apparso pochi giorni prima su il Sole 24 Ore.
L’oggetto in discussione è la triste euforia dell’effimero intesa come altro volto del precariato: un ritratto dei giovani, in buona sostanza… Il Presidente Berlusconi annotava che i ristoranti sono pieni, e Liera, in fondo, dice la stessa cosa riguardo allo struscio che avviene un po’ dappertutto (“struscio” è parola che non indica solo l’indolenza con la quale si passeggia – immagine concreta a supporto dell’effimero… – ma anche il fatto che la folla che vi si dedica è tale che la gente è costretta a strusciarsi l’una con l’altra…).
A quanto pare Liera non va a fondo del problema o, almeno, trae conclusioni che non sono reali, rischiando pure lui di diventare effimero come le sue conclusioni.
Fortunatamente, dicevo, ci pensa Petrosino a mettere le tessere al posto giusto, a dire le cose come stanno, pane a pane, vino a vino, senza cadere nella retorica del suo precedente interlocutore, anzi, con quel cinismo che ci sbatte in faccia il vero volto della realtà, così che, se non vogliamo rifletterci (e porvi rimedio), siamo obbligati a prenderci la nostra responsabilità (soprattutto se siamo educatori, genitori).
Chi lo dice, infatti, che il giorno dopo quella folla (di giovani struscianti) si alza dal dolce dormire e, come tante leggiadre api operaie, s’invola chi qua chi là a produrre la dionisiaca ricchezza, a rabberciare il Pil della nostra dissennata economia?
Petrosino ha il coraggio di dire tutto il contrario: quanti di quegli struscianti il giorno dopo si ritrova a essere il precario di sempre? Troppi. Quanti si recano al lavoro se, in realtà, molti di loro «spesso sono assunti a settimana se non a giornata»? Pochi.
In mezzo a loro, consapevoli o meno quegli struscianti, s’insinua l’idra del consumismo, il potere perverso di una sanguisuga cosmica che succhia loro quel poco che hanno, purché, tuttavia, essi abbiano sempre in serbo la possibilità di bivaccare da papà e da mammà. “Bamboccioni”, come diceva la buon’anima Padoa Schioppa. Sì, certo, bamboccioni ma servi schiavi «del nostro sistema di vita che ha senz’altro garantito, per fortuna, un certo benessere, che ha dato a tutti cibo e istruzione, ma che ora sembra non riuscire a dare molto di più. Giovani spesso laureati, che guadagnano 500 euro al mese (…), che utilizzano i loro guadagni per abbandonarsi a un consumismo compulsivo e senza alcuna vera soddisfazione».
Petrosino ha ragione pure quando ci ricorda che «la nostra società (alla faccia dell’articolo 1 della nostra carta costituzionale) non è più fondata sul lavoro ma sul consumo e la prova è proprio la folla di giovani, corteggiati» dalla pubblicità e dai messaggi asfissianti di quel mostro dietro il quale c’è una regia bene orchestrata da chissàcchì.
Recalcati scrive che in Occidente c’è una «nuova malattia: estinzione, eclissi, spegnimento, tramonto del desiderio. L’Occidente capitalista, che ha liberato l’uomo dalle catene della misera trasformandolo in un homo felix, ha prodotto una nuova forma di schiavitù: l’uomo senza desideri (…) Nel paradosso dell’iperedonismo la pulsione si afferma come finalmente libera ma questa libertà non è in grado di generare alcuna soddisfazione. è una libertà vuota, triste, infelice, apaticamente frivola» (Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore).
Ecco perché Petrosino ha ragione. Purché, com’egli chiosa, i giovani non vivano la loro precarietà col non-senso del “tanto non ne vale la pena”, facendo eco a Sapienza 2,5-9: «Passaggio di un’ombra è infatti la nostra esistenza e non c’è ritorno quando viene la nostra fine, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte». Anziché usare male la Parola di Dio, «Contro una simile deriva – Petrosino aggiunge – gli uomini di buona volontà non dovrebbero stancarsi di ricordarlo e di ripeterlo: “La pensano così ma si sbagliano” (Sapienza 2,21)».

Oreste Mendolìa Gallino

MANOMETTERE LE PAROLE

Parole, parole, parole: ricordate il duetto tra Mina e Alberto Lupo? Preistoria, sì, ma l’ammonimento è più che mai attuale. Società di parole, spesso appariscenti e luccicanti, in cui si sprecano i messaggi di messianismo taroccato. In politica pullulano; il fiume di Internet – in particolare nei social media – ne è inflazionato.
Le parole della Filosofia. Linguaggi e comportamenti, è una rassegna con la vocazione di mettere in luce l’inganno derivante dalla “manomissione delle parole”. A organizzarla, nell’ambito della XVII edizione del Festival del Pensiero, il filosofo Giancarlo Galeazzi; a sponsorizzarla e patrocinarla, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Ancona insieme alla Società Filosofica Italiana con sede nella città dorica.
L’assunto è: la manipolazione delle parole inquina la comunicazione; tale inquinamento provoca inaccettabili “capovolgimenti”. La denuncia è del filosofo Silvano Petrosino, docente presso la Cattolica di Milano e ospite della rassegna: «Restituire alle parole la loro autenticità e ripristinare il loro valore sono imperativi morali, rispondendo ai quali si contribuisce a ridare alla comunicazione il suo pieno significato di “apertura all’altro” e di “stile di vita” in chiave sia linguistica sia comportamentale».
I cialtroni di quel messianismo hanno capito che il tema della persuasione è quello della comunicazione. Ci dicono che la nostra è la società della comunicazione perché ce ne sono gli strumenti: il computer, la Rete e il suo occhio di Grande Fratello, il cellulare. Ma è un inganno, perché tutto ciò ha niente a che fare con la comunicazione ma col godimento: erotizzazione narcisistica nella quale l’individuo ripete – più o meno conscio – l’eterno ritornello “Io ci sono”. «Ma se il bisogno di rassicurazione della propria identità è cosa buona e giusta nel bambino, nell’adulto la certificazione della propria esistenza è patologia».
Petrosino non indugia: «I giovani di oggi hanno un alto tasso di narcisismo che si traduce in una forma profonda d’insicurezza, sintomo di un alto potenziale di aggressività; e questa non è altro che incapacità di ascolto». Perché «noi parliamo e, in genere, non ascoltiamo: parliamo non per comunicare ma per “godere”».
La tesi di Petrosino è palese nel fallimento di una società dei consumi che delira alla ricerca del benessere “a tutti i costi”, in cui cellule come la famiglia e valori come l’amicizia, la lealtà, la trasparenza sono presi a calci. Perché questo disastro? «Perché spesso, anziché comunicare, noi “trasferiamo” informazioni al fine di ottenere qualche cosa, non c’interessa “incontrare” l’altro».
La soluzione? Ce la propongono, tanto per cambiare, le culture latina e greca dell’antichità.
Quintiliano, retore del I sec., secondo cui «non basta conoscere la verità e neppure parlare correttamente ma bisogna parlar bene», diceva che «non è vero che ognuno intende quello che vuole ma quello che può e questo “quello che può” deriva dalla propria esperienza, che è qualcosa che l’individuo non domina mai completamente, perciò è personale e soggettiva».
Come non sentire l’eco di Platone? «Se parliamo di ferro e di bronzo, c’intendiamo; se parliamo di amore e di giustizia, non c’intendiamo più»; oppure quella di Aristotele: «Per affrontare in modo serio il problema del comunicare, bisogna conoscere l’animo umano, le passioni dell’anima. Infatti, le cose non sembrano le stesse a chi vuol bene e a chi odia; a chi è adirato e a chi si trova in stato di calma». Su queste riflessioni poggia il pensiero del filosofo tedesco Heidegger (1889-1976): «L’essere umano non è soltanto situato “fisicamente” nel proprio corpo ma lo è pure “emotivamente”; perciò, a livello della propria esperienza e del proprio inconscio».
Qual è la regola? Innanzitutto che comunicare è coinvolgere, persuadere, stimolare/esortare; triade cui corrisponde l’impegno a dire cose, a esortare; a dilettare. Ve lo immaginate un docente che fa questo con i suoi allievi?
È Retorica nera quella che mi fa decidere, mi convince e inganna che parlo bene quando ottengo dall’altro ciò che voglio. Tuttavia, parlare bene è riuscire a convincere l’altro, non obbligarlo. Un esempio? Il serpente di Genesi: tentatore che inganna instillando la paura, che obbliga, ma non convince. La Retorica nera declina il bene per un tornaconto personale.
La Retorica bianca è quella che fa crescere l’altro, tipo: metto in scena una rappresentazione che permetta allo studente di appassionarsi a ciò che insegno. Infatti, gli effetti di una buona educazione si vedono dopo molti anni, perché la persuasione semina elementi di positività.
Se questa è una ricetta, ora sapete come difendervi dai cialtroni fattucchieri che ve la contano

Oreste Mendolìa Gallino