venerdì 3 novembre 2017

BEN-ESSERE NELLA VALLESINA

L’idea è stata proposta al pubblico il 14 ottobre scorso, presso il Teatro Comunale “Paolo Ferrari” di San Marcello.
A farsene portavoce il Sindaco Pietro Rotoloni, sempre più in prima linea per trovare soluzioni, e metterle in pratica col coraggio e la tenacia che conosciamo, per garantire buona qualità di vita alla Comunità civile.
“Paese del Ben-essere” è il titolo del Convegno che ha visto un successo di pubblico e la partecipazione di numerosi sindaci (alcuni assenti, tra cui Monsano) e imprenditori, taluni non indigeni, che comunque fanno attività locale.
Tuttavia, l’idea è di Raffaele Bucciarelli: nato in Castelplanio vive in Maiolati e vanta il pregio di essere stato Sindaco, Consigliere regionale, Assessore provinciale e Presidente dell’Assemblea legislativa regionale.
Chi, meglio di lui, conosce bene il territorio dove vive, in particolare la Vallesina?
«Intuizione brillante, la sua – come rileva il moderatore giornalista Gianni Rossetti –, che va valorizzata come tante cose particolari e uniche delle Marche, ancorché sia un enorme limite la “capacità di nascondimento” dei Marchigiani». Certo Rossetti mette il dito sulla piaga (dovrei dire “nella” piaga come è nella straordinaria tela caravaggesca dell’“Incredulità di Tommaso”…), perché si sa: il Marchigiano ha enormi risorse e vive in una Regione stupenda, ma non sa affrancarsi dal suo atavico riserbo.
Condizione questa, che non gli permette di «rendersi conto – prosegue Rossetti – del grande potenziale del territorio in cui vive».
“Paese del Ben-essere” è, infatti, un progetto declinato al plurale, perché nelle «colline più belle d’Europa l’idea non riguarda solo San Marcello ma un vasto territorio che ha eccellenze che bisogna fare conoscere».
Nella sua prolusione Rossetti tiene a porre in rilievo talune di queste eccellenze, di San Marcello in primis. «Poco più di 2000 abitanti, il paese di Rotoloni vanta un Centro storico quasi totalmente ristrutturato; un Museo dell’olio; un Museo del telefono che ha pezzi assenti presso l’omonimo in Stoccolma della Ericsson; numerosi imprenditori che producono i vini Lacrima e Verdicchio; l’ex Convento di Montelatiere che, col nome Villa Oasi, entro l’anno corrente diventerà – unico Centro nelle Marche – struttura qualificata per curare i disturbi alimentari. E, per finire, nel giugno 2018 San Marcello ospiterà il Premio Vallesina».
Nel suo intervento, il Sindaco Rotoloni ha voluto confermare il progetto di costituire una serie di Comuni locali, votato alla cultura del “ben-essere”: un modo collaterale alla cosiddetta “bandiera arancione”, marchio di qualità del quale sono insigniti i piccoli Comuni dell’entroterra italiano che si distinguono per un’offerta di eccellenza e un’accoglienza di qualità.
Rotoloni sottolinea che questa “ghirlanda brillante” (per usare una metafora presa in prestito dalla Scienza…) ha l’obiettivo d’ispirarsi alle «linee guida di Bucciarelli per poter partecipare ai bandi europei per attingere fondi per rivalutare centri storici, ambiente e territorio».
Il padre dell’iniziativa, Bucciarelli, apre il suo intervento dicendo che questo progetto «non è solo economico ma riguarda il benessere inteso come “star bene”: cioè vivere profondamente e intimamente il nostro territorio, senza trascurare il valore delle tradizioni che ne hanno fatto un’eccellenza nazionale».
Mi permetto di ricordare in questa sede quello che scrivevo nella prefazione al libro di Don Savino Capogrossi, un tempo Parroco di Monsano, titolato “Piccola crono-storia di un secolo di vita della Comunità di Monsano” (marzo 2016): «La mia opinione è che la cementificazione dell’identità di una Comunità, in poche parole il suo destino, sta nel dialogo che essa riesce a stabilire con la diversità, soprattutto in una società multietnica, multiculturale e globalizzata come è quella del Terzo Millennio. L’alterità, infatti, è sempre un’occasione di confronto e di arricchimento reciproco e va vissuta con spirito di cooperazione (…) tra le parti che sono chiamate a dialogare tra loro».
Lo stesso spirito anima le intenzioni di Bucciarelli che dice: «Dobbiamo imparare ad accogliere l’altro non come un competitore ma una persona con cui collaborare per il bene di tutti, in modo olistico. È un progetto che vuole unire i Comuni nella loro capacità di governare il territorio per il recupero di un benessere che emani “energia positiva”, perché l’unione è la forza comune con la quale recuperare il rispetto. Rispetto dell’alterità e dell’ambiente, certo per una migliore qualità di vita, non meno pure per lasciare ai nostri figli una terra sana».
Il tema conduttore del pensiero di Bucciarelli è l’assunzione della propria responsabilità: ciascuno in modo capillare, in particolare gli operatori economici, la Scuola, i professionisti, gli artigiani e gli artisti locali. Ma è un argomento, quello di Bucciarelli sul primo dovere dell’Uomo di rispettare e salvaguardare la Terra, che egli riconosce essere presente già nell’insegnamento di Papa Francesco che si richiama ai sentimenti del Santo assisiate quando compila l’enciclica “Laudato si’ sulla cura della casa comune”…
A Bucciarelli fa seguito Angelo Serri, giornalista, ideatore e Direttore di “Tipicità”: “un pensatoio di futuro” secondo Alan Friedman, vetrina del patrimonio gastronomico e culturale della nostra Regione.
Serri stimola a pensare in positivo, mettendo da parte i tipici sentimenti marchigiani della modestia e del pudore, «per accorgerci che se molti stranieri e Italiani del Nord vengono a vivere qui da noi, e a impiantare fiorenti attività economiche nei nostri borghi, è perché nelle Marche ogni luogo trasuda cultura e tradizione».
Il suo è un richiamo al benessere per i cinque sensi, a mettere da parte l’eccessiva sobrietà marchigiana, perché «noi ci rendiamo conto dell’Eden in cui viviamo solo quando chi non vive nella nostra Regione c’invita a guardare con occhi nuovi la nostra Terra, a scoprire che i nostri ritmi di vita sono a misura umana e che il nostro stile di vita non esiste più in molte Regioni italiane».
Bruno Sebastianelli, fondatore e Presidente della Cooperativa Bio “La Terra e il Cielo”, fondata «in tempi non sospetti 37 anni fa» ricorda che «l’agricoltura biologica si associa bene alla cultura del benessere.
La Cooperativa di cui egli si fa portavoce è andata in controcorrente rispetto alla crisi economica nata del 2008, crescendo del 15/20% ogni anno. È un incremento reso possibile dall’intento societario di dissociarsi dagli «“avventurieri” del bio, quelli che fanno le “furbate” solo per arricchirsi e sapientemente smascherati dalla trasmissione d’inchiesta televisiva Report».
Il suo intervento è un dettagliato elenco di produzioni tese pure al recupero di antiche tipicità come la cicerchia e il farro. Una filiera il cui scopo principale è promuovere la cultura della salute e del rispetto dell’ambiente attraverso la qualità, la tracciabilità e la tipicità dei prodotti alimentari e quindi delle metodologie produttive.
Agli interventi dei relatori sono seguiti quelli degli imprenditori presenti al Convegno:
-      Luca Celli, delegato di “Slow Food”, Associazione internazionale no profit, all’insegna del motto “Buono, Pulito e Giusto”, impegnata a ridare valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi;
-      Alberto Gandolfi, ex industriale milanese, titolare in San Marcello dell’Azienda di vino biologico “Filodivino”, che, sin dal suo arrivo nelle Marche durante la crisi economica, si è ispirato al concetto di benessere traendone entusiasmo e qualità nei servizi offerti;
-      la Signora Pascale Marquet, contitolare dell’Agritursmo e Cantina “Tenuta San Marcello”, ha condiviso i sentimenti di responsabilità di un progetto che rispetta la terra che lasciamo in eredità ai figli. Nello stesso tempo, ella si fa portavoce del marito, Massimo Palmieri, secondo cui i produttori locali di Lacrima e Verdicchio intendono proporre all’UNESCO di eleggere “patrimonio dell’umanità” le colline della Vallesina;
-      Guido Perrella, di “Morro d’Alba Experience”, condivide lo spirito che anima il Convegno; la sua è un’Associazione nata con l’intento di far conoscere l’entroterra anconetano e i suoi colori: dal verde delle coltivazioni al marrone delle arature, al giallo e al rosso dei filari di Lacrima e Verdicchio;
-      la Signora Orietta Olivetti, contitolare di “Family Med”, il Centro medico sorto in Casine d’Ostra, secondo cui la vocazione d’essere «specialisti in salute si è ispirata al territorio, ritenendo che il benessere medico, corporale e mentale è uno degli ingredienti della qualità della vita indigena»;
-      Andrea Micari, che arriva da Milano per proporre “EYWA” (nome ispirato alla pellicola “Avatar” di Cameron), un’Associazione di promozione sociale no profit «per alimentare la coscienza» come è nel titolo del seminario che Villa Oasi ospiterà il 15 aprile 2018;
-      la Signora Simona Catalani, Presidente della Fondazione “Istituto Pio Don Maurizio Santi”, Scuola paritaria dell’Infanzia in San Marcello, piccolo gioiello educativo che s’ispira all’ideale del suo fondatore che lasciò tutti i suoi beni per l’educazione femminile e che oggi, in tempo di crisi, dà lavoro stabile alle educatrici che vi operano.
La scarsa possibilità che i Comuni locali hanno di cofinanziare progetti e iniziative per il ben-essere è un problema che è messo in evidenza dall’intervento del Sindaco di San Paolo di Jesi, Sandro Barcaglioni.
A lui, e per dare speranza al progetto di cooperazione tra Comuni voluto dal Convegno in oggetto, risponde Moreno Pieroni, Assessore regionale a Turismo, Cultura e Spettacolo.
Suo invito è «fare rete, tanto nel pubblico quanto nel privato, per presentare in Regione progetti che hanno possibilità concrete di ricevere finanziamenti. Denaro che la Regione ha già disponibile, purché il progetto in discussione sia presentato entro il termine dell’anno corrente».
Pieroni si fa portavoce di speranza, perciò di ottimismo, quando afferma che «privati e pubbliche amministrazioni devono lavorare insieme e condividere le proposte attraverso una rete di Comuni, per una qualificazione della Regione a livello nazionale e internazionale…».

Oreste Mendolìa Gallino

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Si scrive DCA ed è acronimo di Disturbi del Comportamento Alimentare.
Una piaga sociale che in Italia affligge oltre 3 milioni di persone e che nel 2016 ne ha portate quasi 3 mila alla morte.
Ci si può guarire, certo, ma è – come sempre in molti casi clinici – un problema di prevenzione. Altrimenti, chi ne soffre cade in una spirale dalla quale non esce…
A questo tema di grande attualità è stato dedicato l’omonimo Convegno distrettuale, dall’interessante propositivo sottotitolo “Accettiamo la sfida”, che si è svolto sabato 20 maggio presso l’ex Convento Montelatiere, organizzato da Lions International, Distretto 108 A e dal Comune di San Marcello.
La manifestazione è stata patrocinata da Regione Marche, Asur Marche - Area vasta n. 2, ASP Ambitonove - Azienda Servizi alla Persona, Commissione Pari Opportunità tra Uomo e Donna della Regione Marche, HETA Centro Multisciplinare per il Disagio Psichico e i Disturbi Alimentari, FIDA Federazione Italiana Disturbi Alimentari, AIDAP Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso.
Gianni Rossetti, Direttore della Scuola di Giornalismo di Urbino, nella sua veste di moderatore ha coordinato gli interventi dei relatori che sono stati, in successione, la Dott.ssa Laura Dalla Ragione e la Dott.ssa Patrizia Iacopini, psichiatre e psicoterapeute, la Dott.ssa Giuliana Capannelli, psicanalista e psicoterapeuta, e, in sostituzione della Dott.ssa Lucia Di Furia, Dirigente Servizio Sanità Regione Marche, assente per motivi istituzionali, il Dott. Paolo Pedrolli, psichiatra.
Rossetti ha voluto ripercorrere le fasi che hanno portato alla realizzazione di Villa Oasi, la struttura residenziale in via di completamento che il sindaco di San Marcello, Pietro Rotoloni, ha tenacemente voluto e portato avanti acquistando l’ex convento e la chiesa di Montelatiere, un tempo dei Padri Passionisti, e che entro l’anno corrente metterà a disposizione 10 posti di degenza e altrettanti per la terapia riabilitativa dai cosiddetti Distrurbi del Comportamento Alimentare, i DCA, appunto.
La brillante, tenace e profetica intuizione di Rotoloni non solo si attesterà come polo di rilevante interesse e prestigio per la cura delle patologie DCA ma offrirà al territorio una straordinaria opportunità di impiego e di lavori terzi che solo l’ostinazione e l’intelligenza di Rotoloni potevano intuire con largo anticipo, andando controcorrente rispetto all’indifferenza della gente comune...
Per maggiori informazioni su questo argomento invito il Lettore a leggere il mio articolo che Voce ha pubblicato il 4 settembre 2016 (cultura_società, pag. 2).
È probabile che l’indifferenza sia anche frutto della scarsa informazione; certa è, invece, una più o meno latente vergogna ad affrontare il tema dei DCA: che ne siano affetti oltre 3 milioni di Italiani è il dato ufficiale ma qual è la stima del sommerso, di chi prova disagio a denunciare di essere vittima di una così grave e invasiva patologia?
A porre la domanda è stata la Dottoressa Dalla Ragione, Responsabile Rete Servizi DCA USL n. 1 Umbria, Direttrice Centro Cura e Riabilitazione DCA Palazzo Francisci di Todi. «I dati che abbiamo sono solo la punta dell’iceberg, perché ci sono persone che neppure si rendono conto di essere affette da questi disturbi e non chiedono aiuto».
Le statistiche emerse in collaborazione col Ministero della Salute attestano che si tratta di una «patologia grave, seconda causa di morte in Italia, tra i 18-25 anni, dopo gli incidenti stradali».
I DCA, prosegue la relatrice, sono una vera e propria «ossessione sulle forme del corpo e sul cibo in sé». Le cause scatenanti sono talvolta semplici e «non c’è bisogno di intercettare eventuali traumi infantili».
La lunga scia della cultura ludica femminile rappresentata dalla bambola Barbie (e di Ken, suo emulo maschile) ha modificato nel tempo, quasi irreversibilmente, i simboli estetici del corpo umano, fino a diventare un «disagio esistenziale. A Todi, sono ricoverate bimbe di 8/10 anni; il 30% dei pazienti femminili è sotto i 14 anni. Ma anche i maschi iniziano a soffrire di questi disturbi ed essi rappresentano il 10-20% della cifra totale dei pazienti. Fra dieci anni i DCA non saranno più una patologia di genere».
La Dottoressa Dalla Ragione nel suo intervento sottolinea che «la prognosi immediata salva; perciò, è importante non cronicizzare la patologia ma intervenire tempestivamente. La famiglia ha un ruolo centrale nella guarigione, perché spesso essa è l’alveo in cui si consumano errori che portano al disturbo alimentare. Altrettanto importante è capire che le terapie non possono mai durare meno di due anni, perciò – conclude la Relatrice – la struttura residenziale Villa Oasi di San Marcello accresce la rete marchigiana di prevenzione e di cura dei DCA».
Alla famiglia e al ruolo importante che essa ha nei DCA è dedicato l’intervento della Dottoressa Iacopini, Medico Psichiatra, Responsabile Centro DCA di Fermo, secondo cui «la speranza di guarigione va alimentata dal dialogo continuo tra la struttura terapeutica e la famiglia. Nutrire il sentimento dell’amore come presupposto terapeutico è ruolo primario che la famiglia deve recitare nella complessa e delicata programmazione di contrasto alla patologia.
Certo – prosegue la Relatrice – «la famiglia di oggi è molto cambiata rispetto a quella dell’Ottocento, ma non sono cambiati i problemi e le dinamiche interrelazionali al suo interno».
Interessante, a tale proposito, è la definizione dei tipi di famiglia, rivenienti dall’esperienza clinica della psicanalista inglese Janet Treasure (1952), in cui si consumano le relazioni tra i genitori e tra questi e i figli: luoghi, queste famiglie, patogeni di equilibri ma pure di scompensi anticamera dei DCA, che la Dottoressa Iacopini propone alla riflessione del pubblico.
Apprendiamo, perciò, che la famiglia iperprotettiva è quella del canguro; in quella del rinoceronte sono all’ordine del giorno scontri e lotte, anche di natura fisica; in quella della medusa tutto è visibile, compresi i sentimenti di rabbia e di frustrazione; nella “famiglia struzzo” la negazione dell’evidenza porta spesso a prorogare pericolosamente la necessità d’intervento terapeutico; mentre – dulcis in fundo – in quella “delfino” pare che si realizzi meglio la sinergia tra genitore e figlio nei cosiddetti “alti e bassi” con-vissuti verso la guarigione, allegoria che ricorda l’incedere in coppia tipico dei simpatici mammiferi marini.
La Dottoressa Iacopini ha inteso sottolineare che la patologia dei DCA si affronta con il dialogo e che esclude ogni processo al malato, tanto meno quello della colpevolizzazione e del senso di colpa propri di taluni genitori. È importante che «la famiglia si relazioni attraverso gruppi di mutuo aiuto per capire che non esiste solitudine. Perciò, ai fini della guarigione è vitale che le terapie riabilitavive coinvolgano la famiglia sia nei Centri di assistenza sia durante il reinserimento nella vita di tutti i giorni».
L’intervento della Dottoressa Iacopini si è chiuso all’insegna del termine “resilienza”, inteso come «capacità di adattarsi alle avversità dell’animo umano e della nostra mente: strumento utile per assumere atteggiamenti positivi di elasticità, duttilità e flessibilità, di creatività e di perseveranza. Perché il pensiero positivo per un “ben-essere” (slogan che ha animato da sempre il Sindaco Rotoloni…) esistenziale e alimentare tiene viva la speranza, favorisce lo sviluppo della persona e la promuove a livello personale e sociale».
L’intervento della Dottoressa Capannelli, Presidente dell’Associazione HETA-FIDA di Ancona e Perugia è stato pensato come stimolo alla riflessione per gli addetti ai lavori nell’àmbito della terapia, perché costoro «capiscano che il paziente ha una sua storia, un vissuto unico e irripetibile tale da avallare l’assunto che le storie di sofferenza non sono mai uguali. Gli operatori hanno il dovere di accostarsi a ogni storia trattandola come se fosse la prima del loro contributo professionale terapeutico, perché chi è affetto da questa patologia non crede di avere bisogno di aiuto. È dunque importante che gli operatori sappiano trovare gli stimoli giusti affinché un paziente si metta in discussione e, nel contempo, abbia le risposte migliori nel modo più confacente al suo stato».
La sensibilizzazione alla patologia dei DCA, tesa anche a individuare eventuali e plausibili casi in nuce, ma rimasti ancora sommersi a causa della vergogna, è l’iniziativa che taluni studenti dell’Università di Urbino hanno realizzato attraverso un’indagine condotta presso le classi II e III delle scuole superiori di Jesi, Senigallia e Loreto.
Ebbene, su 800 classi intervistate per conoscere le abitudini alimentari e lo stile di vita in generale dei giovani, è emerso che il 16% di loro ha concreti problemi di rapporto con il cibo.
Un metodo d’indagine più che efficace capace di contrastare l’evoluzione di una patologia già potenzialmente in atto: cartina di tornasole che analizza, e aiuta ad avversare in modo tempestivo, le ragioni di un problema sociale che non va sottovalutato sia per i numeri statistici sia per gli esiti preoccupanti.
L’intervento dello psichiatra Dottor Pedrolli è servito per fare il punto sulla situazione della prevenzione in atto presso l’Azienda Sanitaria regionale, e per auspicare una riorganizzazione delle prestazioni offerte al pubblico, sia in funzione di una riqualificazione dei piani d’intervento sia in relazione al coordinamento tra la Sanità pubblica e le strutture riabilitative esistenti e prossime, con l’obiettivo indifferibile di migliorare la qualità dei servizi offerti ai pazienti affetti da DCA.

Oreste Mendolia Gallino

IL VECCHIO DI GÙZELYURT

Gùzelyurt è un grosso villaggio della Cappadocia. È vicino alla famosa valle di Penstrema, una stretta e profonda valle con, al centro, un piccolo torrente, una volta abitata da numerosi monaci ed eremiti. Là ci sono ancora numerose chiese, alcune affrescate, e varie grotte collegate tra loro, che servivano come abitazioni ai santi monaci che, per secoli, vi avevano vissuto.
Ora non c’è più nessuno. Solo qualche raro visitatore arriva fin là, oltre ai ragazzi dei villaggi vicini che vi portano al pascolo le pecore, mentre si divertono a fare il bagno nel fiumiciattolo. È molto faticoso giungervi, anche se ho sentito dire che si pensa di fare una strada per i turisti, ma chissà quando ciò accadrà.
Sostando una volta a Gùzelyurt, non molto tempo fa, per visitare chiese e monasteri di quell’area – tutta la Cappadocia ne è ricchissima –, mi recai un pomeriggio nella parte bassa del villaggio per una visita alla chiesa dedicata a san Gregorio di Nazianzo, uno dei grandi Padri della Cappadocia, nativo di quella zona. Si dice infatti che Gùzelyurt sia da identificare con l’antica città di Karbala, presso la quale, nella sua tenuta di Arianzo, era nato nel 330 san Gregorio, detto «il Teologo», per la finezza e la profondità teologica dei suoi scritti.
Ai piedi di un dirupo, dove ci sono ancora diverse abitazioni troglodite, c’è la chiesa a lui dedicata. Meglio sarebbe dire ex chiesa, perché ora è divenuta una moschea, anche se esteriormente e per buona parte anche all’interno mantiene l’aspetto di una chiesa.
Si dice che la chiesa-moschea sia di origine bizantina, costruita proprio sul luogo in cui aveva la casa paterna Gregorio, che qui si era ritirato negli ultimi anni per scrivere e riflettere sulle cose di Dio, nella pace e nel silenzio della campagna.
Uscito dalla chiesa-moschea, ancora tutta circondata da mura di cinta, mentre mi attardavo a rimirare vecchie case e a godermi il paesaggio, mi si avvicinò un anziano contadino. Dopo alcuni convenevoli, avendo sentito che ero cristiano e venivo da lontano, egli proruppe in un’esclamazione di rammarico: «Anche qui una volta vi erano tanti cristiani. Ci sono ancora le loro chiese. Qui ne hai vista una, ma ce ne sono altre intorno. Che peccato! Li abbiamo cacciati via e molti li abbiamo anche uccisi. Che sbaglio abbiamo fatto! Noi andavamo d’accordo con loro e non avevamo problemi. Sono stati quelli di Ankara – lo ricordo ancora – a suggerirci di ucciderli perché, dicevano, altrimenti i cristiani avrebbero ammazzato noi! Solo dopo anni capimmo che non era vero niente, che ci avevano ingannati».
Mentre parlavamo, giungemmo presso un grosso tronco di legno adagiato ai bordi della strada, e lì ci sedemmo. Non c’era bisogno che facessi domande: quel vecchio signore – avrà avuto ottant’anni – aveva voglia di sfogarsi, sembrava quasi che volesse togliersi un peso dalla coscienza, che cercasse un testimone straniero per raccontare la verità dei fatti e liberarsi così da menzogne sentite e raccontate per anni.
Sulla Turchia in quel periodo stava soffiando un’aria di libertà e democrazia, e forse gli era parso il momento giusto per confidarsi senza remore. In ogni caso, per non correre rischi, lo faceva con uno straniero. Il vecchio riprese così il suo racconto.
«Me lo ricordo ancora bene. Un giorno arrivarono due politici da Ankara, eravamo attorno al 1920-’22. Essi convocarono in luogo segreto i più ragguardevoli capifamiglia musulmani. Andai anch’io: avrò avuto una quarantina d’anni.
“Abbiamo saputo”, ci dissero, “che tutti i cristiani si sono messi d’accordo per uccidere i musulmani e occupare le loro case e le loro terre, chiamando poi in aiuto i francesi e i greci per impossessarsi di questa regione. Voi perciò dovete agire subito e precederli, uccidendo i cristiani e occupando le loro terre. Noi vi faremo arrivare le armi e gruppi armati per aiutarvi”.
Tutti ascoltammo esterrefatti, ma nessuno osò mettere in discussione gli ordini dei capi di Ankara, credemmo alla loro parola. Erano anni turbolenti e di guerra, perciò ci preparammo. Dopo pochi giorni giunsero le armi, e bande armate si portarono in Cappadocia. Poi arrivò l’ordine: “Questa notte si agisce”. E fu una carneficina. Ho ancora negli occhi scene strazianti. Non si badava a niente e a nessuno: donne, vecchi e bambini. Molti furono uccisi, altri cacciati dalle loro case e incolonnati come prigionieri verso non so dove, sotto il controllo delle bande armate. Noi avevamo creduto a quello che ci avevano detto i due capi di Ankara», aggiunse con fare lamentoso, quasi a scusarsi.
«Soltanto dopo anni capimmo che era stata una mossa politica, la chiamavano “turchizzazione dell’Anatolia”. Nessun cristiano voleva ucciderci, erano solo problemi politici di contrasto con la Grecia e le potenze occidentali. Che sbaglio abbiamo fatto!». E mentre lo diceva, mi pareva sinceramente pentito. Era un grido quasi accorato: «Che sbaglio!».
Lo guardavo in silenzio, e intanto riflettevo su altri eccidi simili di cui avevo sentito parlare, sempre con molta discrezione, perché degli armeni, ad esempio, era persino proibito pronunciare il nome.
«Ogni volta che penso a quella strage», riprese il vecchio, «provo una profonda vergogna; era tutta brava gente, lavoratori e amici nostri. Per secoli avevamo vissuto nello stesso villaggio, senza problemi. Anzi in tante cose erano migliori di noi. I loro artigiani erano molto bravi. Costruivano le nostre case e sapevano intagliare la pietra in modo meraviglioso. Ci si aiutava a vicenda. La politica! Che serpente velenoso è la politica, porta odio e morte persino tra amici e vicini di casa. Che sbaglio abbiamo fatto!».
Ero commosso a sentire questo anziano signore che davanti a me, un forestiero di passaggio, confessava questa colpa sua e del suo popolo con tanto rammarico.
«Però», riprese, «una famiglia di cristiani sono riuscito a salvarla. E ciò dà un po’ di conforto al mio dolore. Erano miei vicini di casa, ci conoscevamo bene ed eravamo amici. I nostri figli giocavano insieme, alle feste cristiane ci invitavano a pranzo da loro e noi ricambiavamo per le feste islamiche. Quando avevamo bisogno, ci davano una mano, così come facevamo noi con loro. Come potevo pensare che persone simili fossero determinate a ucciderci? E neppure io potevo uccidere loro. Però altri, di sicuro, l’avrebbero fatto, altri che non li conoscevano.
Dopo quell’incontro con i politici di Ankara cercai di avvertirli. “Fuggite, presto, perché vi vogliono uccidere. Andate lontano, da parenti e amici”. Non mi ascoltarono perché non c’era ragione per temere: la loro famiglia era lì da secoli ed erano sempre stati sudditi leali del governo turco.
Io di più non potevo dire per non essere accusato di tradimento, altrimenti avrebbero ammazzato anche me.
In quella notte nefasta cominciò l’eccidio nella città alta. Quando se ne sparse la voce, insieme alle grida dei disperati che venivano trovati e imprigionati o uccisi, subito chiamai i miei vicini cristiani e li nascosi in casa mia.
Fu una notte terribile. Arrivarono i soldati a chiedere dov’era quella famiglia cristiana di cui erano stati informati. “Sono andati presso dei parenti a Urgùp”, risposi prontamente. “Bene, a Urgup li troveranno i nostri colleghi. Su, datti da fare per cacciare questi cani di infedeli”, aggiunsero, come a rimproverarmi perché ero ancora in casa in quella notte fatale.
“Vi raggiungo subito”, dissi. “Andate pure avanti”.
Per fortuna c’era una tale confusione che nessuno ci capiva più niente. I soldati proseguirono, e io caricai i miei amici su un carro, li coprii con un po’ di fieno e mi misi in viaggio per stradine che solo noi conoscevamo, girando per carraie tra campo e campo. Arrivammo quasi all’alba su un alto passo che immette nella valle di Nigde e ci rifugiammo tra le rovine di una vecchia chiesa, chiamata “chiesa rossa” Lasciammo trascorrere il giorno. Io facevo la guardia, fingendo di far riposare e pascolare i due cavalli da tiro del carretto, mentre i miei amici si erano nascosti in una buca dentro la chiesa. Non venne nessuno. All’imbrunire riprendemmo la strada scendendo dall’altra parte, sino a raggiungere la grande strada che da Nigde va verso Tarso e Mersin. In pratica porta in Cilicia, dove c’erano ancora i francesi. Poco prima del confine li lasciai.
“Là sarete tranquilli”, li rassicurai. Presi quindi un cavallo per me lasciando a loro il carretto e l’altro cavallo. “Devo tornare indietro subito”, dissi loro, “perché sono preoccupato per la mia famiglia con tutti i massacri e le ruberie in corso. Arrivederci, e che Dio vi accompagni!”. Ci abbracciammo calorosamente mentre non cessavano di ringraziarmi. Poi d’un balzo fui sul mio cavallo e ripresi la via del ritorno. Si allontanarono verso sud e, voltandomi, li vidi scomparire dietro una curva. Da allora non ci incontrammo più e non seppi che fine avevano fatto.
Un paio di anni fa, però, arrivarono a casa mia due giovanottoni sui trentacinque, quarant’anni. “Siamo i figli di Yusuf, il tuo amico che salvasti trent’anni fa. Lui è morto, ma ha voluto, prima di morire, che gli promettessimo di venire a trovarti per riportarti questa giacca ed esprimerti ancora il suo ringraziamento. Se siamo qui, oggi, lo dobbiamo a te. Allora eravamo piccoli, troppo piccoli per capire, ma nostro padre ci ha raccontato tutto”. Era la giacca che gli avevo dato quella notte per coprirsi dal freddo, perché nella fretta della fuga i miei amici cristiani erano scappati seminudi, in abbigliamento da notte.
Abbracciai i due e piansi con loro, ricordando quella tragica notte. Li trattenni in casa mia per un paio di giorni, rivivendo con loro l’antica amicizia. Poi se ne andarono».
Il vecchio rimase a lungo in silenzio, mentre io ripensavo alla storia ascoltata. Infine si alzò e riprese la sua strada, facendomi con la mano un cenno di saluto.
«Che sbaglio abbiamo fatto, che sbaglio!», continuò a ripetere mentre si allontanava, inerpicandosi su un sentiero del villaggio.

(Trascrizione a cura di Oreste Mendolìa Gallino)


DON LORENZO MILANI

I profeti della Chiesa, anche contemporanea, sono stati spesso oggetto di vessazioni inaudite.
Caso emblematico quello di Galileo: lo scienziato fu processato e giudicato colpevole il 22 giugno 1633, nonostante, nella prefazione e nelle conclusioni de “Il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, egli affermasse di accettare la verità religiosa secondo la Bibbia. Conosciamo le ammissioni di responsabilità di papa Wojtyla: 10 novembre 1979, istituzione di una Commissione di scienziati per porre fine alla condanna; 22 settembre 1989, prolusione nell’Ateneo pisano in cui l’opera di Galileo «è ora da tutti riconosciuta come una tappa essenziale nella metodologia della ricerca…».
E che dire di Pierre Teilhard de Chardin? Le parole di Padre Lombardi (anch’egli Gesuita come il suo collega francese), Direttore della Sala Stampa della Santa Sede fino al 2016: «Ormai nessuno si sognerebbe di dire che (Teilhard) è un autore che non dovrebbe essere studiato» (luglio 2009) tentano di cancellare (ma non ci riescono “ufficialmente”, come nel caso di Galileo…) il 30 giugno 1962, data in cui lo scienziato gesuita fu oggetto di un monitum del Sant’Uffizio secondo cui «in materia di Filosofia e Teologia si vede chiaramente che le (sue) opere racchiudono ambiguità e anche errori tanto gravi, che offendono la dottrina cattolica».
Ma il 1962 (11 ottobre) non fu anche l’anno in cui si aprì il Concilio Vaticano II?
E circa tre mesi prima, Teilhard non veniva condannato perché il suo pensiero e i suoi scritti contenevano «gravibus erroribus, ut catholicam doctrinam offendant»?
Poiché il tempo è galantuomo, Don Maurizio Gronchi, oggi Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha precisato che nei contributi apparsi nella rivista Studium (n. 3, maggio-giugno 2014) e sul numero del 5-6 luglio del quotidiano La Croix, la figura di Teilhard assume oggi, sempre più, i nitidi contorni di quel singolare cercatore di Dio nell’universo in movimento.
D’altronde, è ormai impossibile ignorare che gli oltre cinquant’anni dal Concilio Vaticano II sono stati l’occasione per una riscoperta del valore del pensiero teilhardiano, con i suoi stimoli a considerare l’evoluzionismo non solo come teoria scientifica compatibile con la fede cristiana, ma anche come modello interpretativo di carattere antropologico ed ecologico cui i Pontefici attuali danno rilievo.
Altro profeta incompreso fu Don Lorenzo Milani, il giovane sacerdote nato in Firenze in una famiglia altoborghese, appassionato di Letteratura e di Musica che, all’incirca a metà del XX secolo, inventò un nuovo modo d’insegnare: la cultura come riscatto, la non violenza come pratica di vita.
Molte le similitudini pedagogiche tra Milani e Montessori!
I libri anticonformisti di Milani dettero “fastidio” al Magistero; eppure, il suo “Esperienze Pastorali” ebbe il nulla osta dell’Arcivescovo di Firenze e una prefazione dell’Arcivescovo di Camerino.
Nonostante ciò, durante il pontificato di Papa Giovanni la delazione contro Milani si fece ostinata fino a raggiungere il Sant’Uffizio, sempre in agguato per difendere la Chiesa di allora per tante ragioni, pure di opportunismo politico, tra le quali il problema del Comunismo che in quel tempo era un grattacapo reale che assillava tanto il Cristianesimo quanto la politica internazionale…
A cinquant’anni dalla sua morte (26 giugno 1967), il Centro Culturale I Care, con il patrocinio del Comune di Jesi (rappresentato dall’Assessore alla Cultura Dottor Butini), presso la Chiesa diSan Giovanni Battista (San Filippo), dal 1° al 9 aprile ha promosso una mostra fotografica commemorativa a cura della fiorentina Fondazione Don Milani, confluita, a due giorni dal suo termine, venerdì 7 aprile, alle ore 18, nella conferenza di presentazione del libro “Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole”. Era presente l’Autrice, Valeria Milani Comparetti, nipote, da parte di padre, di Don Lorenzo (che, in realtà, “faceva” di cognome Milani Comparetti…).
Voglio qui ricordare che fu proprio Don Lorenzo ad adottare, nella sua esperienza pedagogica, il motto inglese “I care” (m’importa, m’interessa, ho a cuore) in aperta opposizione a quello fascista “me ne frego”.
Quel motto è stato “ripescato” da Don Attilio Pastori quando, alcuni anni fa, ci si è ispirato per costituire il Centro Culturale I Care (ultima sua creatura culturale preceduta da Musica Præcentio venticinque anni or sono) nel tentativo di riesumare, queste le sue parole, «l’intenzione di Don Milani di portare i giovani, che ora sono anziani, alla sensibilità dei problemi inerenti alla conoscenza culturale e ai problemi dell’impegno anche politico da portare avanti in senso umano e cristiano».
Con questa testimonianza Monsignor Pastori ha ricordato di aver conosciuto Don Milani, seppure “di sfuggita”, quand’era giovane studente universitario in Firenze. Un tempo, quello, in cui – sempre dalle parole di Don Attilio – «in Jesi e in tutte le Diocesi italiane, quando io ero vice parroco in San Giuseppe, sul confessionale campeggiava lo scritto “se sei comunista, sei in peccato, confessalo!”».
Il libro che la nipote di Milani ha scritto ricorda per un certo verso quello dell’intima corrispondenza del sacerdote fiorentino con la mamma, «in cui il rapporto tra madre e figlio si rivela di un’intensità straordinaria, anche intellettuale»; ma, nel nostro caso, accade il contrario, perché l’epistolario tra Milani e il babbo (nonno dell’Autrice) è stato rinvenuto quasi per caso, «in scatoloni di cose vecchie», e fa emergere un uomo, Albano, «che è stato molto influente su Lorenzo».
«Ho scoperto – prosegue l’Autrice – che Albano era stato battezzato ed educato come cattolico; l’ho scoperto dai suoi scritti che in parte ho trascritto: questo è un libro molto documentale e io mi sono limitata a dare un assaggio di quello che è l’archivio di Albano. Pur essendo un laico agnostico, egli era studioso di religioni, soprattutto di quella Cattolica, e aveva scritto vari testi sulla religione cattolica. Fino a oggi, Don Lorenzo è stato visto come “il figlio di un’ebrea” vissuto in un ambiente familiare ebreo, cosa che in realtà non era…».
Nonostante il suo agnosticismo «Albano s’interessava di dogmatica, mistica e culto mariano, ed esercitava l’autorevolezza che un padre, soprattutto in quel tempo, poteva avere sui figli. Albano si occupò anche d’istruire i suoi contadini, pur essendo un borghese liberale e proprietario terriero padronale e paternalista dal quale Lorenzo si dissociò completamente…».
Il sottotitolo “Carezzarsi con le parole” spiega che in quella famiglia borghese («nella quale non si era soliti avere contatti fisici, come le carezze, perché “non si fa”») il rapporto d’affetto era veicolato dalla parola. Don Lorenzo usò questo espediente «per arrivare alla “scrittura collettiva” (esperienza straordinaria e importantissima della sua Pastorale) intesa come un “carezzarsi” che si fa all’interno di un patto amoroso come quello familiare. Per noi – termina l’Autrice – è così che trasmettiamo l’amore per l’altro: seguendone gli interessi, discutendone con lui, perché uno scritto è un progetto di discussione comune e di approfondimento».
Nel tentativo di porre fine all’esegesi distorta di Don Milani, in chiusura l’Autrice ha annunciato la prossima edizione dell’opera omnia dello zio sacerdote «in modo da dare la versione “vera” di ciò che Don Milani ha scritto, poiché molti (da varie parti) ne hanno strumentalizzato l’operato. Ecco i testi filologicamente restituiti e sono ciò che Don Milani ha veramente scritto…».

Oreste Mendolìa Gallino

L'AUTORITÀ PERDUTA

è lo psichiatra più famoso d’Italia ma ha fama internazionale. Nulla di strano, perciò, se a mezzanotte del 1 febbraio gli spettatori sono ancora inchiodati alle poltrone del Teatro delle Muse in Ancona. Paolo Crepet ha appena terminato la prima (a ingresso libero) delle conferenze anconetane sui rapporti genitori-figli [le prossime saranno il 22/2 (Ascoltare i figli) – 8 e 28/3 (Conflitti famigliari – Adolescenza e sessualità), ore 21 c/o il Ridotto del Teatro; prenotare al tel./fax 0712901110, € 60,00 per tutte e tre]. La rassegna è a cura della rivista “salute & famiglia - senzaetà”, con sede in Ancona, diretta da Luca Guazzati e di cui Crepet è direttore del Comitato scientifico.
Affabulatore eccellente, Crepet domina la scena con rara capacità istrionica; il suo linguaggio facile è avvolgente e fascinoso.
L’autorità perduta, suo ultimo recente libro (Einaudi, € 16,50 ben spesi), è un invito ai genitori a ritrovare “il coraggio che i figli ci chiedono”. Quale coraggio? Crepet si occupa di famiglia, perciò è il coraggio di fare il mestiere del genitore: «audacia perduta in nome del quieto vivere, così da ridursi a tirar su figli smidollati. Non certo come quello della nave Concordia, i figli – incredibile ma vero! – vogliono «capitani coraggiosi, perché nell’educazione ci vuole chi comanda, chi tiene la barra del timone. Purtroppo, la nostra è l’epoca in cui a 8 anni un bambino vive l’illusione di comandare e di avere tutto e tutti a disposizione. I comandanti devono avere il controllo della situazione; un educatore ha bisogno di redini: cioè le regole da fare rispettare, sempre, senza deroghe; di speroni: cioè il mordente da trasmettere, l’invito a sfidare ogni ostacolo. Un educatore deve stimolare alla vita, altrimenti il suo ruolo è vano e va incontro al fallimento.
Tuttavia pietra miliare dell’educazione è avere stima di chi si educa e, soprattutto, credere nel suo potenziale. Montessori diceva che ogni bambino ha delle potenzialità e che tra i giovani non ci sono “scarti”. Perciò, le risorse sono una scommessa per il futuro, non per il presente; ecco perché bisogna dire ai giovani: “Avete il futuro nelle vostre mani ma credeteci!”. Soltanto chi è ottimista crede nel futuro e ci scommette».
Tra le tante opinioni di Crepet vi è quella che «i genitori sono diventati Inps per i figli, non sanno stimolarli né fare in modo che essi credano in sé. I giovani – sembra banale ma è così – sono ciò che noi abbiamo fatto di loro».
«La crisi economica – continua Crepet – è ancora più gravosa per chi deve fare in modo che le ristrettezze economiche non gravino eccessivamente sui figli e la loro vita. In linea di massima, questa crisi può diventare un’opportunità per un Paese che deve ancora imparare che la qualità e l’ingegno ci salveranno, mentre la furbizia e il cinismo ci faranno sprofondare in una crisi epocale. Penso che la crisi sia anche un’opportunità per educare meglio i figli, spiegando loro che non tutto può essere scontato e che le cose vanno meritate e non pretese. Credo che se i genitori italiani imparassero a togliere qualcosa ai loro figli, invece che dare e basta, questa nostra comunità avrebbe un destino migliore».
Mentre ascolto Crepet, e dopo aver letto questo suo libro, sono preso da un dubbio. In quarta di copertina leggo che esso ha un taglio più “arrabbiato”: Crepet stesso l’ha ammesso in radio (Zapping, a cura di Forbice). è un libro fortemente “politico” (da pólis, nel senso di “pubblico”, non di partitocrazia…).
Ho tanta paura che, nonostante la sua forza trascinatrice, egli stesso è così “arrabbiato” perché forse, in fondo, è consapevole che a livello educativo la situazione attuale è molto grave, quasi come se ci fosse l’intima consapevolezza che, ormai, i buoi sono ormai scappati dalla stalla.
Glielo chiederò la prossima volta che lo sentirò. Per ora giro a voi la domanda: è una riflessione che i genitori devono fare…
Mondo di tanti forbiti azzeccagarbugli, nel suo “mestiere” Crepet è un maestro. Impossibile non riconoscergli il coraggio di dire cose talmente semplici e banali che lo fanno quasi sembrare retorico, scontato, banale. Crepet è un laico che propone un progetto pedagogico i cui valori sono eterni, perciò che parla pure il linguaggio della fede. E lo fa col coraggio di “chi non ha peli sulla lingua”, perché non deve genuflettersi davanti ad alcuno…

Oreste Mendolìa Gallino

SULLE TRACCE DEL SENSO. PERCORSI LOGOTERAPEUTICI

«L’uomo è responsabile
 di quello che fa, 
di quello che ama
 e di quello che soffre»
.
L’aforisma, che non è solo tale perché è il senso della sua “analisi esistenziale”, è di Viktor Frankl, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco scomparso vent’anni fa.
Nato da famiglia ebrea, Frankl ha patito il nazismo in Auschwitz e Dachau; non sorprende che sia diventato il padre della “logoterapia”: il metodo psicoterapeutico che tende a riscoprire il senso, il significato (logos, parola) dell’esistenza dell’essere umano e a evidenziarne il nucleo profondamente umano e spirituale.
Quasi una eco di Nietzsche (1844-1900), secondo cui se l’Uomo ha il perché di se stesso (per vivere) può farsi carico di ogni domanda sul come.
Già: un perché per vivere! Ragione e senso che spolverano l’opacità rugginosa dell’inutilità per ridare brillantezza alla dignità dell’essere umano.
Secondo lo psicologo salesiano e massimo interprete vivente della scuola frankliana, don Eugenio Fizzotti, il metodo di Frankl «non sospinge in un cantuccio a leccarsi le ferite provocate da un ambiente ostile, da una struttura caratteriale difficile, da un’educazione autoritaria e permissiva, ma chiede di guardare a fronte alta davanti a sé, di respirare profondamente e a pieni polmoni l’aria della libertà e della responsabilità, di spalancare a chiunque le braccia e il cuore e di lanciarsi con entusiasmo in quell’avventura che ha come obiettivo il riconoscimento e la promozione del rispetto, della dignità e della salute integrale di ogni uomo». Sulle tracce del senso. Percorsi logoterapeutici, LAS, Roma 1998.
È a questo terreno fertile e ricco di stimoli di tradizione terapeutica che s’ispira la formazione di Marco Ceppi, noto psicologo jesino che, col suo recente libro Scintille di senso. Per una logoterapia del quotidiano (Morlacchi Editore, Perugia. € 10,00), ci offre efficaci spunti di riflessione.
Ceppi si occupa di problematiche adolescenziali legate ai fenomeni delle dipendenze, del cyberbullismo, dei sex offender e delle vittime di abuso sessuale.
Scintille di senso nasce dalla sua esperienza professionale: percorso da un sottile latente filo autobiografico, il libro è dedicato ai giovani, perché di giovani parla; racconta di giovani e del loro disagio esistenziale contraddistinto innanzitutto dall’incertezza, da un senso di smarrimento e dall’impossibilità di tracciare i contorni di se stessi in una società che, per loro, è al tempo stesso frustrante ed “emarginante” e seduttrice al consumo compulsivo dell’effimero.
Non è un caso se Ceppi cita il sociologo polacco Bauman, secondo cui viviamo una società liquida che ha abbattuto sicurezze, valori e creato falsi miti di cui i giovani sono le prime vittime…
Nootemporalità, de-territorializzazione e disinformatizzazione sono alcune delle ferite di questa liquidità sociale: se non si riesce più a pensare alla vita come a un progetto dotato di unitarietà e coerenza (pag. 147), si fa urgente il bisogno di aiutare i giovani a “sognare” per realizzare i loro progetti [pertinente è la citazione di Roberto Mancini che già da piccolo “sognava” di «farsi strada nel calcio» (pag. 31)].
Inoltre, la migrazione dai luoghi delle proprie origini culturali, spesso costretta da esigenze di sopravvivenza, ha ingenerato il disagio di non sentirsi più parte di una comunità e ha lacerato il senso di appartenenza alle proprie tradizioni.
Infine, secondo Ceppi, cartina di tornasole del diffuso disagio sociale è il rovesciamento della relazione formativa: una sorta di “mondo alla rovescia” in cui non sono più i vecchi a insegnare ai giovani ma il contrario, soprattutto per effetto delle tecnologie diffuse. Non c’è da sorprendersi, perciò, se la società liquida, che ha trasformato tutto in merce, compreso l’essere umano, è riuscita a mettere al bando la saggezza dei vecchi cui i giovani non possono più ispirarsi.
Proprio per questo motivo, Ceppi non esita a ricordare che l’umanità si salva se non perde la memoria di sé e dei propri limiti, perché uscire «rafforzati e indenni dalla crisi di senso che sta colpendo la nostra società» significa aiutare i giovani «a orientarsi nella ricerca del senso del proprio esistere…» (pag. 152).
La struttura del libro di Ceppi è piuttosto complessa ma è ben articolata: un catino che raccoglie anche molte storie di vita, in cui (e attraverso le quali) «l’autore c’invita a guardare alle scintille di senso che, come stelle nel cielo, possono illuminare il nostro cammino, dandovi un orientamento, un senso… capaci di dare direzione (…) non attraverso degli insegnamenti bensì mediante vere e proprie testimonianze di vita…» (Bellantoni, Prefazione); talvolta servendosi di metafore come la montagna, cui Ceppi è appassionato, la cui scalata è allegoria dell’impegno quotidiano al vivere una vita di qualità.
Opportuna è, dunque, la citazione di Frankl che l’Autore propone in apertura di questa sua prima esperienza editoriale: «Scrivere un libro è una gran cosa. Saper vivere è molto di più e ancor di più scrivere un libro che insegni a vivere. Ma il massimo è condurre una vita sulla quale si possa scrivere un libro».
Voglio terminare condividendo con il Lettore l’entusiasmo che ho provato leggendo il libro di Ceppi nel constatare la prolifica capacità di trarre spunti da ogni cosa quotidiana per portare avanti la sua indagine. Lo faccio ricorrendo a una citazione: «Quello che maggiormente conforta è che la psicoanalisi sembra sempre più disposta a riconoscere che il suo oggetto di ricerca è comune con quello di altre discipline scientifiche e che non può sottrarsi da confronti che mettano a prova anche l’accountability del suo metodo e della sua efficacia terapeutica. Come potrebbe commentare qualcuno, meglio tardi che mai». Alessandro Pagnini, Inchiesta sulla psiche. Il Sole 24 Ore. Domenica. 11 dicembre 2016, pag. 30.
Oreste Mendolìa Gallino