martedì 13 ottobre 2015

EUFORIA DELL'EFFIMERO

Chi l’avrebbe mai detto? Nel nostro tempo, inzuppato di effimero e di precarietà, la Bibbia potrebbe diventare cattiva maestra. Sì, non storcete il naso: esempio cattivo, s’intende, se essa serve per incrementare la deriva in cui ci stiamo muovendo, una deviazione del senso della vita dal suo centro (nucleo) che è, appunto, la Parola di Dio come verbalizzazione del Verbo, così inteso per eccellenza, il Figlio di Dio che è (pure) uomo.
Vado con calma e mi muovo anche con circospezione: so che il terreno è minato. Tento di riassumere per voi, interessante (e utile) materiale di riflessione per tutti, un editoriale del Prof. Silvano Petrosino (cfr. Voce della Vallesina del 29 gennaio 2012, pag. 5) apparso su Avvenire (20/9/2011) che, a sua volta, ne commenta uno (e se ne discosta, fortunatamente) di Marco Liera, apparso pochi giorni prima su il Sole 24 Ore.
L’oggetto in discussione è la triste euforia dell’effimero intesa come altro volto del precariato: un ritratto dei giovani, in buona sostanza… Il Presidente Berlusconi annotava che i ristoranti sono pieni, e Liera, in fondo, dice la stessa cosa riguardo allo struscio che avviene un po’ dappertutto (“struscio” è parola che non indica solo l’indolenza con la quale si passeggia – immagine concreta a supporto dell’effimero… – ma anche il fatto che la folla che vi si dedica è tale che la gente è costretta a strusciarsi l’una con l’altra…).
A quanto pare Liera non va a fondo del problema o, almeno, trae conclusioni che non sono reali, rischiando pure lui di diventare effimero come le sue conclusioni.
Fortunatamente, dicevo, ci pensa Petrosino a mettere le tessere al posto giusto, a dire le cose come stanno, pane a pane, vino a vino, senza cadere nella retorica del suo precedente interlocutore, anzi, con quel cinismo che ci sbatte in faccia il vero volto della realtà, così che, se non vogliamo rifletterci (e porvi rimedio), siamo obbligati a prenderci la nostra responsabilità (soprattutto se siamo educatori, genitori).
Chi lo dice, infatti, che il giorno dopo quella folla (di giovani struscianti) si alza dal dolce dormire e, come tante leggiadre api operaie, s’invola chi qua chi là a produrre la dionisiaca ricchezza, a rabberciare il Pil della nostra dissennata economia?
Petrosino ha il coraggio di dire tutto il contrario: quanti di quegli struscianti il giorno dopo si ritrova a essere il precario di sempre? Troppi. Quanti si recano al lavoro se, in realtà, molti di loro «spesso sono assunti a settimana se non a giornata»? Pochi.
In mezzo a loro, consapevoli o meno quegli struscianti, s’insinua l’idra del consumismo, il potere perverso di una sanguisuga cosmica che succhia loro quel poco che hanno, purché, tuttavia, essi abbiano sempre in serbo la possibilità di bivaccare da papà e da mammà. “Bamboccioni”, come diceva la buon’anima Padoa Schioppa. Sì, certo, bamboccioni ma servi schiavi «del nostro sistema di vita che ha senz’altro garantito, per fortuna, un certo benessere, che ha dato a tutti cibo e istruzione, ma che ora sembra non riuscire a dare molto di più. Giovani spesso laureati, che guadagnano 500 euro al mese (…), che utilizzano i loro guadagni per abbandonarsi a un consumismo compulsivo e senza alcuna vera soddisfazione».
Petrosino ha ragione pure quando ci ricorda che «la nostra società (alla faccia dell’articolo 1 della nostra carta costituzionale) non è più fondata sul lavoro ma sul consumo e la prova è proprio la folla di giovani, corteggiati» dalla pubblicità e dai messaggi asfissianti di quel mostro dietro il quale c’è una regia bene orchestrata da chissàcchì.
Recalcati scrive che in Occidente c’è una «nuova malattia: estinzione, eclissi, spegnimento, tramonto del desiderio. L’Occidente capitalista, che ha liberato l’uomo dalle catene della misera trasformandolo in un homo felix, ha prodotto una nuova forma di schiavitù: l’uomo senza desideri (…) Nel paradosso dell’iperedonismo la pulsione si afferma come finalmente libera ma questa libertà non è in grado di generare alcuna soddisfazione. è una libertà vuota, triste, infelice, apaticamente frivola» (Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore).
Ecco perché Petrosino ha ragione. Purché, com’egli chiosa, i giovani non vivano la loro precarietà col non-senso del “tanto non ne vale la pena”, facendo eco a Sapienza 2,5-9: «Passaggio di un’ombra è infatti la nostra esistenza e non c’è ritorno quando viene la nostra fine, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte». Anziché usare male la Parola di Dio, «Contro una simile deriva – Petrosino aggiunge – gli uomini di buona volontà non dovrebbero stancarsi di ricordarlo e di ripeterlo: “La pensano così ma si sbagliano” (Sapienza 2,21)».

Oreste Mendolìa Gallino

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