Parole,
parole, parole: ricordate il duetto tra Mina e Alberto Lupo? Preistoria,
sì, ma l’ammonimento è più che mai attuale. Società di parole, spesso
appariscenti e luccicanti, in cui si sprecano i messaggi di messianismo
taroccato. In politica pullulano; il fiume di Internet – in particolare nei social
media – ne è inflazionato.
Le
parole della Filosofia. Linguaggi e comportamenti, è una rassegna con la
vocazione di mettere in luce l’inganno derivante dalla “manomissione delle
parole”. A organizzarla, nell’ambito della XVII edizione del Festival del Pensiero, il filosofo
Giancarlo Galeazzi; a sponsorizzarla e patrocinarla, l’Assessorato alla Cultura
del Comune di Ancona insieme alla Società
Filosofica Italiana con sede nella città dorica.
L’assunto è: la
manipolazione delle parole inquina la comunicazione; tale inquinamento provoca
inaccettabili “capovolgimenti”. La denuncia è del filosofo Silvano
Petrosino, docente presso la Cattolica di Milano e ospite della rassegna: «Restituire
alle parole la loro autenticità e ripristinare il loro valore sono imperativi
morali, rispondendo ai quali si contribuisce a ridare alla comunicazione il suo
pieno significato di “apertura all’altro” e di “stile di vita” in chiave sia
linguistica sia comportamentale».
I cialtroni di quel messianismo hanno capito che
il tema della persuasione è quello della comunicazione. Ci dicono che la nostra
è la società della comunicazione perché ce ne sono gli strumenti: il computer,
la Rete e il suo occhio di Grande
Fratello, il cellulare. Ma è un inganno, perché tutto ciò ha niente a che
fare con la comunicazione ma col godimento:
erotizzazione narcisistica nella quale l’individuo ripete – più o meno conscio –
l’eterno ritornello “Io ci sono”. «Ma se il bisogno di rassicurazione della
propria identità è cosa buona e giusta nel bambino, nell’adulto la
certificazione della propria esistenza è patologia».
Petrosino non indugia: «I giovani di oggi hanno un
alto tasso di narcisismo che si traduce in una forma profonda d’insicurezza, sintomo
di un alto potenziale di aggressività; e questa non è altro che incapacità di
ascolto». Perché «noi parliamo e, in genere, non ascoltiamo: parliamo non per
comunicare ma per “godere”».
La tesi di Petrosino è palese nel fallimento di
una società dei consumi che delira alla ricerca del benessere “a tutti i costi”,
in cui cellule come la famiglia e valori come l’amicizia, la lealtà, la trasparenza
sono presi a calci. Perché questo disastro? «Perché spesso, anziché comunicare,
noi “trasferiamo” informazioni al fine di ottenere qualche cosa, non c’interessa
“incontrare” l’altro».
La soluzione? Ce la propongono,
tanto per cambiare, le culture latina e greca dell’antichità.
Quintiliano, retore del I sec.,
secondo cui «non basta conoscere la verità e neppure parlare correttamente ma
bisogna parlar bene», diceva che «non è vero che ognuno intende quello che vuole ma quello che può e questo “quello che può” deriva dalla propria
esperienza, che è qualcosa che l’individuo non domina mai completamente, perciò
è personale e soggettiva».
Come non sentire l’eco di
Platone? «Se parliamo di ferro e di bronzo, c’intendiamo; se parliamo di amore
e di giustizia, non c’intendiamo più»; oppure quella di Aristotele: «Per affrontare
in modo serio il problema del comunicare, bisogna conoscere l’animo umano, le
passioni dell’anima. Infatti, le cose non sembrano le stesse a chi vuol bene e
a chi odia; a chi è adirato e a chi si trova in stato di calma». Su queste riflessioni
poggia il pensiero del filosofo tedesco Heidegger (1889-1976): «L’essere umano
non è soltanto situato “fisicamente” nel proprio corpo ma lo è pure “emotivamente”;
perciò, a livello della propria esperienza e del proprio inconscio».
Qual è la regola? Innanzitutto che comunicare è coinvolgere, persuadere, stimolare/esortare; triade cui corrisponde l’impegno a dire cose, a esortare; a dilettare. Ve lo immaginate un docente
che fa questo con i suoi allievi?
È Retorica nera quella che mi
fa decidere, mi convince e inganna che parlo bene quando ottengo dall’altro ciò
che voglio. Tuttavia, parlare bene è riuscire a convincere l’altro, non
obbligarlo. Un esempio? Il serpente di Genesi: tentatore che inganna
instillando la paura, che obbliga, ma non convince. La Retorica nera declina il
bene per un tornaconto personale.
La Retorica bianca è quella che
fa crescere l’altro, tipo: metto in scena una rappresentazione che permetta allo studente di appassionarsi a ciò
che insegno. Infatti, gli effetti di una buona educazione si vedono dopo molti
anni, perché la persuasione semina elementi di positività.
Se questa è una ricetta, ora
sapete come difendervi dai cialtroni fattucchieri che ve la contano…
Oreste
Mendolìa Gallino
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