martedì 13 ottobre 2015

MANOMETTERE LE PAROLE

Parole, parole, parole: ricordate il duetto tra Mina e Alberto Lupo? Preistoria, sì, ma l’ammonimento è più che mai attuale. Società di parole, spesso appariscenti e luccicanti, in cui si sprecano i messaggi di messianismo taroccato. In politica pullulano; il fiume di Internet – in particolare nei social media – ne è inflazionato.
Le parole della Filosofia. Linguaggi e comportamenti, è una rassegna con la vocazione di mettere in luce l’inganno derivante dalla “manomissione delle parole”. A organizzarla, nell’ambito della XVII edizione del Festival del Pensiero, il filosofo Giancarlo Galeazzi; a sponsorizzarla e patrocinarla, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Ancona insieme alla Società Filosofica Italiana con sede nella città dorica.
L’assunto è: la manipolazione delle parole inquina la comunicazione; tale inquinamento provoca inaccettabili “capovolgimenti”. La denuncia è del filosofo Silvano Petrosino, docente presso la Cattolica di Milano e ospite della rassegna: «Restituire alle parole la loro autenticità e ripristinare il loro valore sono imperativi morali, rispondendo ai quali si contribuisce a ridare alla comunicazione il suo pieno significato di “apertura all’altro” e di “stile di vita” in chiave sia linguistica sia comportamentale».
I cialtroni di quel messianismo hanno capito che il tema della persuasione è quello della comunicazione. Ci dicono che la nostra è la società della comunicazione perché ce ne sono gli strumenti: il computer, la Rete e il suo occhio di Grande Fratello, il cellulare. Ma è un inganno, perché tutto ciò ha niente a che fare con la comunicazione ma col godimento: erotizzazione narcisistica nella quale l’individuo ripete – più o meno conscio – l’eterno ritornello “Io ci sono”. «Ma se il bisogno di rassicurazione della propria identità è cosa buona e giusta nel bambino, nell’adulto la certificazione della propria esistenza è patologia».
Petrosino non indugia: «I giovani di oggi hanno un alto tasso di narcisismo che si traduce in una forma profonda d’insicurezza, sintomo di un alto potenziale di aggressività; e questa non è altro che incapacità di ascolto». Perché «noi parliamo e, in genere, non ascoltiamo: parliamo non per comunicare ma per “godere”».
La tesi di Petrosino è palese nel fallimento di una società dei consumi che delira alla ricerca del benessere “a tutti i costi”, in cui cellule come la famiglia e valori come l’amicizia, la lealtà, la trasparenza sono presi a calci. Perché questo disastro? «Perché spesso, anziché comunicare, noi “trasferiamo” informazioni al fine di ottenere qualche cosa, non c’interessa “incontrare” l’altro».
La soluzione? Ce la propongono, tanto per cambiare, le culture latina e greca dell’antichità.
Quintiliano, retore del I sec., secondo cui «non basta conoscere la verità e neppure parlare correttamente ma bisogna parlar bene», diceva che «non è vero che ognuno intende quello che vuole ma quello che può e questo “quello che può” deriva dalla propria esperienza, che è qualcosa che l’individuo non domina mai completamente, perciò è personale e soggettiva».
Come non sentire l’eco di Platone? «Se parliamo di ferro e di bronzo, c’intendiamo; se parliamo di amore e di giustizia, non c’intendiamo più»; oppure quella di Aristotele: «Per affrontare in modo serio il problema del comunicare, bisogna conoscere l’animo umano, le passioni dell’anima. Infatti, le cose non sembrano le stesse a chi vuol bene e a chi odia; a chi è adirato e a chi si trova in stato di calma». Su queste riflessioni poggia il pensiero del filosofo tedesco Heidegger (1889-1976): «L’essere umano non è soltanto situato “fisicamente” nel proprio corpo ma lo è pure “emotivamente”; perciò, a livello della propria esperienza e del proprio inconscio».
Qual è la regola? Innanzitutto che comunicare è coinvolgere, persuadere, stimolare/esortare; triade cui corrisponde l’impegno a dire cose, a esortare; a dilettare. Ve lo immaginate un docente che fa questo con i suoi allievi?
È Retorica nera quella che mi fa decidere, mi convince e inganna che parlo bene quando ottengo dall’altro ciò che voglio. Tuttavia, parlare bene è riuscire a convincere l’altro, non obbligarlo. Un esempio? Il serpente di Genesi: tentatore che inganna instillando la paura, che obbliga, ma non convince. La Retorica nera declina il bene per un tornaconto personale.
La Retorica bianca è quella che fa crescere l’altro, tipo: metto in scena una rappresentazione che permetta allo studente di appassionarsi a ciò che insegno. Infatti, gli effetti di una buona educazione si vedono dopo molti anni, perché la persuasione semina elementi di positività.
Se questa è una ricetta, ora sapete come difendervi dai cialtroni fattucchieri che ve la contano

Oreste Mendolìa Gallino

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