“Navigare l’insicurezza o
gestire la complessità?”: il filosofo Riccardo Dottori, cittadino di Moie, ha
tenuto una conferenza sulle “Riflessioni, le aperture e le suggestioni per il
pensare e l’agire nel presente”.
Indagine prevalentemente
sociologica di carattere politico e culturale, l’intervento di Dottori non
esita a verificare come e quanto il
ruolo dell’individuo sia fondamentale per il destino dell’umanità, in funzione
della “qualità morale” che ciascuno deve consacrare alle relazioni umane; educazione al dialogo e alla condivisione,
dunque, possibile solo attraverso l’autodisciplina
della persona umana, intesa come primitivo e primario valore senza il quale la
speranza non esiste e il futuro non
si costruisce.
La riflessione di Dottori è
complessa e articolata, perché si fonda sulla disamina di quelle che sono
considerate le “sfide” fondamentali che l’umanità deve affrontare e superare
per coltivare la speranza nel futuro del mondo.
La prima sfida è quella tra
la razionalità e la pianificazione del futuro, che sembra cozzare contro i limiti
del nostro pianeta.
Nella società occidentale
contemporanea – prosegue il filosofo – la razionalità non è altro che la razionalizzazione
sia della produzione sia delle risorse del nostro pianeta, perché essa sembra essere
l’arma più propria per la sussistenza e la sopravvivenza dell’umanità che tende
continuamente a crescere.
Il problema che ormai pone la
nutrizione dei 10 miliardi di persone e la miseria in cui versa la grande maggioranza
delle popolazioni africane e, in parte, delle asiatiche, nonché la situazione
di endemica arretratezza e conflittualità negli Stati Uniti, nell’America
Latina e nei Paesi post-comunisti, pongono seri interrogativi sul futuro dell’umanità.
Questa non è la sola sfida,
perché con essa s’incrocia un’altra
sfida che viene da un principio fondamentale della civiltà occidentale in
quanto cristiana, ed è quella della solidarietà.
È impossibile pensare di pianificare il
nostro futuro senza il valore fondamentale della solidarietà. La razionalità
non è sufficiente.
Il regime dell’iniziativa e
della concorrenza nella società in cui viviamo tende sempre all’accaparramento
delle risorse per l’assicurazione della propria sopravvivenza o della propria
egemonia. Nei Paesi più sviluppati del panorama mondiale non si lotta solo per
la sussistenza ma per l’egemonia vista, questa, in quanto condizione imprescindibile
per la sopravvivenza.
Se nell’Occidente europeo si
perde la sfida della solidarietà si vanifica anche la sfida della pianificazione
razionale e pacifica del nostro futuro.
Sotto certi aspetti, questa sfida è contrapposta alla precedente,
poiché si tratta della sfida della solidarietà tra gli abitanti del pianeta
contro la corsa all’accaparramento delle risorse.
Un altro dei valori fondamentali della tradizione occidentale,
condizione basilare per la pianificazione razionale all’insegna della
solidarietà, è la democrazia.
In Grecia è il “potere del
popolo”: potere garantito dal dialogo tra persone libere e che può essere
inteso come il dialogo tra i vari segmenti
costitutivi della società oltre che al dialogo tra i singoli individui.
Senza democrazia e senza
dialogo, pure a livello internazionale tra Paesi, non funziona la razionalizzazione
delle risorse del pianeta.
L’ultima sfida è quella del dialogo tra le diverse religioni e le
diverse civiltà. Questa è forse la sfida più difficile da
realizzare.
Le società e le civiltà non
occidentali sembrano non tenere in alcuna considerazione la democrazia e il
dialogo; alla base di queste civiltà – perché ne determinano gli scopi e lo
stile di vita –, esistono religioni insensibili – se non contrarie – al
confronto, religioni che credono di essere uniche detentrici della “verità”:
sia per ragioni di esercizio del potere da parte delle classi dominanti (cui
non vogliono rinunciare) sia perché, in verità, “democrazia” e “dialogo”
ammettono, per definizione, che l’“altro” (cioè le altre religioni) possa
essere nel vero.
La negazione della democrazia,
che in buona sostanza si traduce nella negazione dei diritti della Persona,
della sua libertà critica e del dialogo in generale, è lo spettacolo cui
quotidianamente assistiamo e che non ci fa bene sperare per il nostro futuro.
All’inizio de “La Repubblica”di Platone, la colossale opera di filosofia che mai ci stancheremo di ammirare
e di capire, chiedendoci invano se si tratta di un’opera politica, o di
educazione civile, o d’indagine filosofica, o di progetto utopico di una società
futura, l’Autore propugna il principio
del dialogo come condizione essenziale per lo sviluppo della civiltà, di ogni
convivenza civile e, quindi, di quello stato ideale che ha, appunto, nel
dialogo il suo oggetto fondamentale di realizzazione della “polis” (cfr.
Giuseppe Cambiano, Polis. Un modello per
la cultura europea. Laterza, 2000).
Platone indica come compito
della vita mortale la via che tende verso l’alto, verso la via immortale o il “viaggio
millenario” (termine che sta a significare che i Platonici credevano nella
reincarnazione delle anime), che consiste nel praticare giustizia o saggezza, e
tende a sottolineare che non esiste alternativa alla convivenza civile se non
quella basata sulla mutua persuasione, e quindi sul dialogo.
Ne “La Repubblica”, infatti, è
proprio l’espediente dialogico che permette a Platone il confronto tra i vari
personaggi: contro la violenza di chi rifiuta il dialogo non si può fare nulla
ma solo invitare l’“altro” alla persuasione piuttosto che all’esercizio della
prepotenza; proprio nel momento in cui
cessa il dialogo, perché l’“altro” non ha più argomenti da contrapporre,
iniziano la violenza e la guerra.
Un altro principio ispiratore
che emerge dal pensiero platonico a proposito del dialogo è quello secondo cui vincere se stesso è la prima e la migliore
di tutte le vittorie, non fosse altro perché, in questo modo, si scongiurano la
guerra e la violenza da essa riveniente.
Al contrario, l’essere vinto da
se stesso è la cosa peggiore e più vergognosa che possa accadere ad un individuo.
Si tratta ora di capire che
cosa significa “vincere se stessi”.
La piena legittimazione della persona umana sta nella sua possibilità
di vincere la guerra con se stessa.
Pure in questo frangente la
lezione è quella che ci viene da “La Repubblica”: soltanto quell’affidatezza
interiore, che proviene dal nostro equilibrio intimo, dalla comunione delle
nostre facoltà sensibili ed intellettuali, è la base di tutte le virtù civili. È
questo che significa essere esenti dalla violenza!
Tuttavia, la vittoria su se
stessi non va intesa come un esercizio alternativo della violenza, come è accaduto
nel Medioevo o in una certa parte del Cristianesimo, ma come temperanza
esercitata e raggiunta con l’esercizio.
A tale proposito, Platone
afferma che non si può essere fidati cittadini se non si è fedeli a se stessi. È
in questa originaria “affidatezza”, affidabilità, fedeltà che si fonda la base
del giusto rapporto tra i cittadini, quindi la base del diritto e della pace. Ne consegue che la composizione dei
conflitti sociali va intesa come esercizio del dialogo. La pace, infatti,
non può essere fondata sulla vittoria di alcuna tra le parti in causa, ma solo
sul principio fondamentale del confronto, sull’armonia raggiunta attraverso il
dialogo che è, appunto, virtù e base del diritto, della giustizia e delle
giuste leggi.
È legittimo chiedersi: qual è l’effettiva
possibilità di dialogo, quale la reale apertura dialogica?
Potrebbe essere infatti
possibile che nel dialogo stesso ci sia una sommessa, una velata possibilità
che esista una certa forma di violenza da parte di qualcuno: quella di pretendere
di essere nel giusto e nel vero e di volere, per questo motivo, persuadere l’altro
con tutti i mezzi dell’arte del discorso.
Va altresì sottolineato che non
vi è alcun dialogo tra le parti se entrambe non ammettono di sé, per principio
e con coraggio, che possono avere torto. Non
esiste dialogo che porti alla pace, e alla legittimazione dell’“altro” in modo
reciproco, se il confronto inizia col pre-giudizio (cioè il giudizio
preventivo) di qualcuno ad avere ragione.
La reale apertura dialogica
pretende innanzitutto di mettere in discussione se stessi e cioè la propria
personale presunzione di essere nel vero e nel giusto. Ecco perché per imparare
a dialogare effettivamente e per costruire un futuro dobbiamo imparare… ad
avere torto. Perché “avere torto” significa trovare l’entusiasmo di mettersi in
discussione, di cercare e sperimentare nuove strade, di fare autocritica, di
saper ascoltare l’“altro” e smettere di ubriacarsi della propria voce.
Soltanto allora incontreremo l’“altro”,
perché lo riconosceremo nella sua diversità, e nell’incontro tra “i diversi”
sapremo collaborare per unire forze complementari al mantenimento degli
equilibri mondiali che assicurano il futuro del mondo.
Oreste Mendolìa Gallino
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