martedì 13 ottobre 2015

PENSARE E AGIRE NEL PRESENTE

“Navigare l’insicurezza o gestire la complessità?”: il filosofo Riccardo Dottori, cittadino di Moie, ha tenuto una conferenza sulle “Riflessioni, le aperture e le suggestioni per il pensare e l’agire nel presente”.
Indagine prevalentemente sociologica di carattere politico e culturale, l’intervento di Dottori non esita a verificare come e quanto il ruolo dell’individuo sia fondamentale per il destino dell’umanità, in funzione della “qualità morale” che ciascuno deve consacrare alle relazioni umane; educazione al dialogo e alla condivisione, dunque, possibile solo attraverso l’autodisciplina della persona umana, intesa come primitivo e primario valore senza il quale la speranza non esiste e il futuro non si costruisce.
La riflessione di Dottori è complessa e articolata, perché si fonda sulla disamina di quelle che sono considerate le “sfide” fondamentali che l’umanità deve affrontare e superare per coltivare la speranza nel futuro del mondo.
La prima sfida è quella tra la razionalità e la pianificazione del futuro, che sembra cozzare contro i limiti del nostro pianeta.
Nella società occidentale contemporanea – prosegue il filosofo – la razionalità non è altro che la razionalizzazione sia della produzione sia delle risorse del nostro pianeta, perché essa sembra essere l’arma più propria per la sussistenza e la sopravvivenza dell’umanità che tende continuamente a crescere.
Il problema che ormai pone la nutrizione dei 10 miliardi di persone e la miseria in cui versa la grande maggioranza delle popolazioni africane e, in parte, delle asiatiche, nonché la situazione di endemica arretratezza e conflittualità negli Stati Uniti, nell’America Latina e nei Paesi post-comunisti, pongono seri interrogativi sul futuro dell’umanità.
Questa non è la sola sfida, perché con essa s’incrocia un’altra sfida che viene da un principio fondamentale della civiltà occidentale in quanto cristiana, ed è quella della solidarietà. È impossibile pensare di pianificare il nostro futuro senza il valore fondamentale della solidarietà. La razionalità non è sufficiente.
Il regime dell’iniziativa e della concorrenza nella società in cui viviamo tende sempre all’accaparramento delle risorse per l’assicurazione della propria sopravvivenza o della propria egemonia. Nei Paesi più sviluppati del panorama mondiale non si lotta solo per la sussistenza ma per l’egemonia vista, questa, in quanto condizione imprescindibile per la sopravvivenza.
Se nell’Occidente europeo si perde la sfida della solidarietà si vanifica anche la sfida della pianificazione razionale e pacifica del nostro futuro.
Sotto certi aspetti, questa sfida è contrapposta alla precedente, poiché si tratta della sfida della solidarietà tra gli abitanti del pianeta contro la corsa all’accaparramento delle risorse.
Un altro dei valori fondamentali della tradizione occidentale, condizione basilare per la pianificazione razionale all’insegna della solidarietà, è la democrazia.
In Grecia è il “potere del popolo”: potere garantito dal dialogo tra persone libere e che può essere inteso come il dialogo tra i vari segmenti costitutivi della società oltre che al dialogo tra i singoli individui.
Senza democrazia e senza dialogo, pure a livello internazionale tra Paesi, non funziona la razionalizzazione delle risorse del pianeta.
L’ultima sfida è quella del dialogo tra le diverse religioni e le diverse civiltà. Questa è forse la sfida più difficile da realizzare.
Le società e le civiltà non occidentali sembrano non tenere in alcuna considerazione la democrazia e il dialogo; alla base di queste civiltà – perché ne determinano gli scopi e lo stile di vita –, esistono religioni insensibili – se non contrarie – al confronto, religioni che credono di essere uniche detentrici della “verità”: sia per ragioni di esercizio del potere da parte delle classi dominanti (cui non vogliono rinunciare) sia perché, in verità, “democrazia” e “dialogo” ammettono, per definizione, che l’“altro” (cioè le altre religioni) possa essere nel vero.
La negazione della democrazia, che in buona sostanza si traduce nella negazione dei diritti della Persona, della sua libertà critica e del dialogo in generale, è lo spettacolo cui quotidianamente assistiamo e che non ci fa bene sperare per il nostro futuro.
All’inizio de “La Repubblica”di Platone, la colossale opera di filosofia che mai ci stancheremo di ammirare e di capire, chiedendoci invano se si tratta di un’opera politica, o di educazione civile, o d’indagine filosofica, o di progetto utopico di una società futura, l’Autore propugna il principio del dialogo come condizione essenziale per lo sviluppo della civiltà, di ogni convivenza civile e, quindi, di quello stato ideale che ha, appunto, nel dialogo il suo oggetto fondamentale di realizzazione della “polis” (cfr. Giuseppe Cambiano, Polis. Un modello per la cultura europea. Laterza, 2000).
Platone indica come compito della vita mortale la via che tende verso l’alto, verso la via immortale o il “viaggio millenario” (termine che sta a significare che i Platonici credevano nella reincarnazione delle anime), che consiste nel praticare giustizia o saggezza, e tende a sottolineare che non esiste alternativa alla convivenza civile se non quella basata sulla mutua persuasione, e quindi sul dialogo.
Ne “La Repubblica”, infatti, è proprio l’espediente dialogico che permette a Platone il confronto tra i vari personaggi: contro la violenza di chi rifiuta il dialogo non si può fare nulla ma solo invitare l’“altro” alla persuasione piuttosto che all’esercizio della prepotenza; proprio nel momento in cui cessa il dialogo, perché l’“altro” non ha più argomenti da contrapporre, iniziano la violenza e la guerra.
Un altro principio ispiratore che emerge dal pensiero platonico a proposito del dialogo è quello secondo cui vincere se stesso è la prima e la migliore di tutte le vittorie, non fosse altro perché, in questo modo, si scongiurano la guerra e la violenza da essa riveniente.
Al contrario, l’essere vinto da se stesso è la cosa peggiore e più vergognosa che possa accadere ad un individuo.
Si tratta ora di capire che cosa significa “vincere se stessi”.
La piena legittimazione della persona umana sta nella sua possibilità di vincere la guerra con se stessa.
Pure in questo frangente la lezione è quella che ci viene da “La Repubblica”: soltanto quell’affidatezza interiore, che proviene dal nostro equilibrio intimo, dalla comunione delle nostre facoltà sensibili ed intellettuali, è la base di tutte le virtù civili. È questo che significa essere esenti dalla violenza!
Tuttavia, la vittoria su se stessi non va intesa come un esercizio alternativo della violenza, come è accaduto nel Medioevo o in una certa parte del Cristianesimo, ma come temperanza esercitata e raggiunta con l’esercizio.
A tale proposito, Platone afferma che non si può essere fidati cittadini se non si è fedeli a se stessi. È in questa originaria “affidatezza”, affidabilità, fedeltà che si fonda la base del giusto rapporto tra i cittadini, quindi la base del diritto e della pace. Ne consegue che la composizione dei conflitti sociali va intesa come esercizio del dialogo. La pace, infatti, non può essere fondata sulla vittoria di alcuna tra le parti in causa, ma solo sul principio fondamentale del confronto, sull’armonia raggiunta attraverso il dialogo che è, appunto, virtù e base del diritto, della giustizia e delle giuste leggi.
È legittimo chiedersi: qual è l’effettiva possibilità di dialogo, quale la reale apertura dialogica?
Potrebbe essere infatti possibile che nel dialogo stesso ci sia una sommessa, una velata possibilità che esista una certa forma di violenza da parte di qualcuno: quella di pretendere di essere nel giusto e nel vero e di volere, per questo motivo, persuadere l’altro con tutti i mezzi dell’arte del discorso.
Va altresì sottolineato che non vi è alcun dialogo tra le parti se entrambe non ammettono di sé, per principio e con coraggio, che possono avere torto. Non esiste dialogo che porti alla pace, e alla legittimazione dell’“altro” in modo reciproco, se il confronto inizia col pre-giudizio (cioè il giudizio preventivo) di qualcuno ad avere ragione.
La reale apertura dialogica pretende innanzitutto di mettere in discussione se stessi e cioè la propria personale presunzione di essere nel vero e nel giusto. Ecco perché per imparare a dialogare effettivamente e per costruire un futuro dobbiamo imparare… ad avere torto. Perché “avere torto” significa trovare l’entusiasmo di mettersi in discussione, di cercare e sperimentare nuove strade, di fare autocritica, di saper ascoltare l’“altro” e smettere di ubriacarsi della propria voce.
Soltanto allora incontreremo l’“altro”, perché lo riconosceremo nella sua diversità, e nell’incontro tra “i diversi” sapremo collaborare per unire forze complementari al mantenimento degli equilibri mondiali che assicurano il futuro del mondo.

Oreste Mendolìa Gallino

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